In Last chance Texaco, la recente autobiografia della cantautrice statunitense Rickie Lee Jones, c’è una pagina affascinante, la storia della sua prima canzone. Rickie aveva sei anni e viveva in Arizona, e un bel giorno trovò una rana in una pozzanghera di fango. La bambina sapeva bene che sotto il sole del deserto sarebbe morta e quindi la raccolse amorevolmente e la portò sul ciglio di un pozzo. Nel gettarla giù le disse: “Vai! Lì c’è acqua… lì potrai nuotare e sarai lontana dal sole”. Dopo qualche ora si affacciò nel pozzo e vide la rana morta. “Avevo ucciso qualcosa”, scrive Rickie Lee Jones, “ero inconsolabile. E non trovavo riparo da nessuna parte da quella sensazione. Ora lo sapevo: la gente può fare un male terribile, anche io potevo fare del male a una creatura innocente”. È a quel punto che la bambina compone la sua prima canzone:

Io vorrei, vorrei, vorrei
Che i desideri si avverassero
E allora, lo so
Le cose si aggiusteranno

È una specie d’ingenuo incantesimo, una ninna nanna per addormentarsi e risvegliarsi in un mondo migliore, un mondo in cui la rana era ancora viva. “Stavo aprendo delle strade tra la mia immaginazione e il mondo reale davanti a me”, spiega la musicista: “La vera rana era morta ma l’ho salvata nella mia prima canzone”.

Last chance Texaco è una strana autobiografia: non è il solito racconto degli alti e bassi di una rock star, non è un libro che parla di una cantautrice che trova faticosamente il successo e che combatte con le droghe, l’alcol e le relazioni sbagliate. Non è un libro sulla vacuità della fama. Anzi, Rickie Lee Jones tra le righe lo dà per scontato: essere riconosciute è bello, fare i soldi con la musica è il massimo e, come ha dimostrato con il suo primo grande successo, Chuck E’s in love, non è neanche così difficile. Quella che vuole raccontare nel libro è la sua storia interiore; le copertine di Rolling Stone, i grandi tour e la sofferta storia d’amore con Tom Waits sono solo dei dettagli che lei affronta qua e là in una narrazione frastagliata che è soprattutto un tentativo di riallacciarsi alle sue radici familiari e culturali.

Rickie Lee Jones si definisce troubadour più che cantautrice. Una cantastorie che, con la chitarra in mano, gira contrada per contrada raccontando in musica storie fantastiche, a volte terribili, a volte meravigliose. Storie che possono essere un miscuglio di verità e finzione, parabole evangeliche o leggende metropolitane. Le storie, i personaggi e le ambientazioni sono l’ossatura delle canzoni e degli album di Rickie Lee Jones e il suono, gli accordi, gli arrangiamenti sono una specie di scenografia, i colori vivaci sulle grandi tavole dipinte che gli antichi cantastorie portavano con sé nelle fiere.

All’inizio degli anni novanta la carriera di Rickie Lee Jones è a un punto morto. È rispettata come artista coraggiosa, visionaria ma difficilmente catalogabile e ancora più difficilmente vendibile. L’album Pop pop, uscito nel 1991, una raccolta di cover di standard americani coraggiosamente destrutturati e reinventati, confonde tutti. La critica jazz lo detesta e il pubblico rock non è interessato. Rickie Lee Jones destandardizza gli standard, li smonta per trovarci dentro frammenti del suo dna culturale, ma il pubblico non la segue e Pop pop rimane il suo album meno venduto. L’anno prima una sua intervista era stata campionata (a sua insaputa) in Little fluffy clouds, un brano del duo ambient-dub britannico The Orb e per la generazione dei ventenni Rickie Lee Jones rischia di diventare la zia hippy un po’ fattona che farfuglia di quanto, sotto lsd, fossero magici e colorati i tramonti dell’Arizona.

Rickie Lee Jones sarà pure stata una delle più fotogeniche esponenti della cultura hippy californiana, ma ha le orecchie ed è una musicista. A metà anni novanta, a 43 anni, comincia a interessarsi al trip hop e all’elettronica, forse anche a causa dell’appropriazione indebita della sua voce fatta dagli Orb. Ascoltando Tricky e Massive Attack e studiando le loro tecniche di produzione e di sovrapposizione di loop, Rickie Lee Jones scopre una nuova tavolozza di colori e supera il blocco dello scrittore: storie, personaggi e visioni ricominciano ad affollare le sue canzoni. Insieme al musicista Rick Boston mette insieme Ghostyhead, un album di cantautorato elettronico decisamente in anticipo sui tempi. L’elettronica crea, a sorpresa, l’ambiente ideale che fa ritrovare a Rickie Lee Jones la sua voce di cantastorie: le sue creature fatate, i suoi racconti incredibili, le sue storie tra sogno e veglia ritrovano colore e vigore grazie a un approccio nuovo alla composizione.

Anche la copertina di Ghostyhead, una testina creata dall’artista dell’Ariziona John Nelson mescolando espressionismo e pittura naïf, parla di un riavvicinamento alle sue radici. L’estetica di Rickie Lee Jones è simile a quell’illustrazione: un po’ ghigno e un po’ sorriso, un po’ gioco di bambina e un po’ incubo, un po’ tv a colori lasciata accesa senza volume in un motel e un po’ visione sciamanica sotto peyote.

Ghostyhead è un album affascinante che in pochi hanno capito: la maggior parte dei critici ha trovato curiosa e pretestuosa la sua nuova direzione elettronica. Alcuni però, come il critico teatrale Hilton Als, hanno capito quanto lavorio, anche interiore, ci fosse dietro a quel nuovo suono. “Quello di sacrificio è un concetto antiquato quando cerchiamo di applicarlo agli artisti di oggi”, ha scritto Als riguardo a Ghostyhead, “ma qui sento di poter parlare tranquillamente di sacrificio: Rickie Lee Jones non avrebbe mai potuto realizzare questo album senza aver perduto qualcosa ed essere sopravvissuta”.

Ghostyhead non è disponibile sulle maggiori piattaforme di streaming. Ma si può ascoltare per intero su YouTube.

Rickie Lee Jones
Ghostyhead
Reprise/Warner Bros., 1997

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