“Non rianimare”. Quest’ordine dovrebbe valere per l’industria del petrolio e quella automobilistica, e per le compagnie aeree. Naturalmente i governi dovrebbero garantire sussidi ai lavoratori di queste aziende, ma nel frattempo dovrebbero rimodellare l’economia per creare nuovi posti di lavoro in settori diversi. Dovrebbero sostenere solo quelle attività economiche che possono contribuire alla salvezza dell’umanità e delle altre specie viventi.

Gli stati potrebbero rilevare le attività inquinanti e indirizzarle verso tecnologie pulite, o mantenere una promessa che spesso fanno (ma in realtà non vogliono veder realizzata): lasciare che sia il mercato a decidere. Cioè, lasciare che quelle attività falliscano.

È la seconda, grande occasione che abbiamo per creare un futuro diverso. E potrebbe essere l’ultima. La prima, nel 2008, è stata clamorosamente sprecata. All’epoca furono spese grandi quantità di denaro pubblico per rimettere in piedi la vecchia economia inquinante, garantendo allo stesso tempo che la ricchezza rimanesse concentrata nelle mani di pochi. Oggi molti governi sembrano pronti a ripetere lo stesso, catastrofico errore.

Il “libero mercato” è sempre stato il prodotto delle scelte dei governi. Se le leggi sulla concorrenza sono deboli, pochi giganti sopravvivono mentre tutti gli altri affondano. Se le industrie sporche devono rispettare normative ferree, quelle pulite possono prosperare. Altrimenti ne approfitta chi trova delle scappatoie.

Dobbiamo diffidare dei governi quando dicono di agire in nome del popolo

Nei paesi capitalisti raramente le imprese private sono state così dipendenti dalle politiche pubbliche come in questo momento. Molte grandi industrie hanno bisogno dell’aiuto dello stato per sopravvivere. I governi tengono in pugno l’industria petrolifera – che si ritrova con centinaia di milioni di barili di greggio invendibili – esattamente come tenevano in pugno le banche nel 2008. All’epoca gli stati non riuscirono a sfruttare quel potere per mettere fine alle pratiche finanziarie socialmente dannose e per rifondare il settore mettendo in primo piano le reali necessità delle persone. A quanto pare oggi stanno facendo lo stesso.

La Banca d’Inghilterra ha deciso di rilevare il debito di compagnie petrolifere come la Bp, la Shell e la Total. Il governo britannico ha concesso a EasyJet un prestito da 600 milioni di sterline anche se poche settimane prima la compagnia aveva distribuito dividendi per 171 milioni di sterline: il profitto è privatizzato, il debito è socializzato. Negli Stati Uniti il primo piano di aiuti approvato prevede 25 miliardi di dollari per le compagnie aeree, e in generale un’intensa attività di estrazione di petrolio per creare riserve strategiche, la cancellazione delle leggi contro l’inquinamento e l’esclusione delle rinnovabili. Diversi paesi europei stanno cercando di salvare i produttori di auto e di aerei.

Dobbiamo diffidare dei governi quando dicono di agire in nome del popolo. Un recente sondaggio condotto da Ipsos in 14 paesi indica che in media il 65 per cento della popolazione vorrebbe che il cambiamento climatico fosse una priorità per i piani di ripresa economica. Gli elettori di tutto il mondo cercano di convincere i governi ad agire nell’interesse dei cittadini, non delle multinazionali e dei miliardari che li finanziano e gli fanno pressioni. La sfida democratica è rompere i legami tra i politici e i settori economici che dovrebbero regolamentare o, in questo caso, semplicemente chiudere. Anche quando i politici ci provano, i loro sforzi sono spesso deboli e ingenui.

La lettera con cui un gruppo di parlamentari britannici ha chiesto al governo di salvare le compagnie aeree solo se “faranno di più per risolvere l’emergenza climatica” potrebbe essere stata scritta nel 1990. I viaggi in aereo sono intrinsecamente inquinanti. Non esistono misure realistiche che possano avere un effetto significativo, neanche a medio termine. Sappiamo che il sistema di compensazione delle emissioni di gas serra è completamente inutile: ogni settore economico deve ridurre il più possibile le emissioni, non ha senso trasferire questo peso da una parte all’altra. L’unica riforma accettabile si basa sul taglio dei voli aerei, e qualsiasi tentativo che impedisca un ridimensionamento di questo settore compromette la possibilità di limitarne l’impatto ambientale.

La crisi attuale mostra che c’è ancora molto da fare per allontanarci da una traiettoria disastrosa. Nonostante gli enormi cambiamenti nelle nostre vite, quest’anno le emissioni globali di anidride carbonica si ridurranno di appena il 5,5 per cento. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, per avere una minima possibilità di scongiurare un aumento della temperatura globale superiore a 1,5 gradi dovremmo ridurre le emissioni del 7,6 per cento all’anno per i prossimi dieci anni. In un certo senso il lockdown ha messo in evidenza il limite dell’impegno individuale. Viaggiare meno aiuta, ma non basta. Per ottenere i necessari tagli alle emissioni è indispensabile un cambiamento strutturale. Questo significa creare una politica industriale completamente nuova, ideata e portata avanti dai governi. Paesi come il Regno Unito dovrebbero cancellare i piani per la costruzione di nuove strade. Anziché ampliare gli aeroporti, bisognerebbe ridurre il numero di slot (intervalli di tempo assegnati alle compagnie aeree) per gli atterraggi. Più in generale, servirebbero politiche concrete per fermare l’estrazione di combustibili fossili.

Ripensare la mobilità
Durante la pandemia molti hanno scoperto quanto siano superflui alcuni spostamenti. I governi possono partire da questa nuova consapevolezza e investire negli spazi pedonali e ciclabili, oltre che nei trasporti pubblici, quando non sarà più necessario mantenere le distanze. Questo significa marciapiedi più ampi, piste ciclabili migliori e sistemi di trasporto pensati per le persone, non per generare profitti. Bisognerebbe investire nelle energie pulite e ancora di più nella riduzione della domanda di energia, per esempio puntando sull’efficienza energetica delle case. La pandemia ha messo in luce la necessità di una migliore progettazione urbanistica, che riduca gli spazi dedicati alle auto e moltiplichi quelli per gli esseri umani. Inoltre ha messo in evidenza che le economie liberalizzate e con una scarsa pressione fiscale non sono in grado di garantire quel tipo di sicurezza di cui abbiamo bisogno ora.

Dobbiamo creare quella cosa che molti chiedevano a gran voce anche prima del disastro sanitario: un new deal verde. Ma, per favore, smettetela di descriverlo come un pacchetto di incentivi. Nell’ultimo secolo abbiamo incentivato fin troppo i consumi, ed è proprio per questo che viviamo una catastrofe ambientale. Chiamiamolo pacchetto di sopravvivenza, e facciamo in modo che l’obiettivo sia garantire redditi, distribuire ricchezza ed evitare il disastro, abbandonando l’ossessione della crescita economica perpetua.

Salviamo le persone, non le multinazionali. Salviamo le creature viventi, non i loro carnefici. Abbiamo una seconda occasione: non sprechiamola.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è uscito sul numero 1357 di Internazionale. Compra questo numero|Abbonati

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