Ogni tanto, per fortuna, escono ancora dischi in grado di sorprendere. Album che rompono la monotonia, riuscendo ad aprire nuovi orizzonti per la musica italiana. È il caso di Die, il nuovo disco del musicista sardo Jacopo Incani, in arte Iosonouncane.
Die racconta la storia di un uomo e una donna. L’uomo si trova in mezzo al mare e ha paura di morire. La donna guarda dalla terraferma gli ultimi scoppi di burrasca al largo, con il timore di non rivedere mai più l’uomo. L’album non è altro che la descrizione dei loro pensieri. È strutturato in sei parti, con due brani corali (Tanca e Mandria) ad aprire e chiudere il disco, e quattro brani centrali (Stormi, Buio, Carne e Paesaggio) sviluppati dalla prospettiva di lui e di lei.
Die è un disco teso, in cui si respira un’atmosfera di tragedia incombente. Mescola molti generi, dall’elettronica alla musica etnica, dal prog rock al folk, senza perdere mai la sua coerenza, la sua voglia di racconto esistenziale. Già con La Macarena su Roma, uscito nel 2010, Iosonouncane si è dimostrato un autore di grande talento. Con il suo nuovo disco Jacopo Incani, nato a Buggerru nel 1983, riesce a fare un passo avanti inaspettato. È presto per dirlo, ma forse tra qualche anno Die sarà considerato un classico della musica italiana.
Abbiamo intervistato Iosonouncane a Roma, poche ore prima del suo concerto alle Mura, per farci raccontare com’è nato l’album.
Hai cominciato a scrivere le canzoni di Die quattro anni fa. Com’è nata l’idea del disco?
È stato un lavoro molto lungo e non lineare. Quello che ho scritto dalla fine del 2010 all’inizio del 2012 era un insieme di bozze, di frammenti melodici che ho collezionato quando sono tornato in Sardegna dopo la fine del tour della Macarena su Roma. Mi sono reso conto che tutti i brani avevano una forte parentela melodica, una sorta di dimensione atemporale, al tempo stesso moderna e arcaica. Mi è venuto subito in mente di usare il canto tenore sardo.
Nei mesi successivi, quando nel febbraio 2012 sono tornato in tour, ho cominciato a pensare all’architettura del disco e ho deciso che tutti i brani dovevano essere in qualche modo legati. Ho scritto Carne e da lì è cominciata la seconda parte dell’album.
In quel momento hai capito che il disco sarebbe diventato un concept album?
Esatto. Inizialmente l’album doveva essere una lunga suite di tre canzoni (Tanca, Stormi e Buio), ma, come detto, dopo aver composto Carne ho capito che la chiusura del cerchio doveva essere diversa. Alla fine del secondo tour sono tornato in Sardegna per un anno e ho finito di scrivere i pezzi. In quel periodo sono nate Paesaggio e Mandria, i due brani di chiusura. A quel punto ho capito che c’era troppo materiale e avevo bisogno di una mano. Così all’inizio del 2014 è entrato in gioco Bruno Germano, che ha prodotto il disco insieme a me. Alla fine abbiamo scartato un sacco di materiale.
Cosa farai con i brani esclusi dal disco?
Ci sono cose che ho cestinato perché non ero convinto. In generale, mi capita di scrivere molte linee melodiche, ma se non rispettano l’idea di disco che ho in mente non le porto a termine. Insomma, non ho brani inediti, a parte tre o quattro.
Cosa hai ascoltato durante le registrazioni dell’album?
Ho ascoltato musica elettronica come Fennesz, ma anche jazz, house, psichedelia, prog e musica tradizionale sarda.
Die è molto ricco dal punto di vista musicale, ma ha un titolo minimalista. Perché l’hai scelto?
Ha tanti significati: in sardo significa giorno, in inglese morire e in tedesco è l’articolo determinativo femminile. Me l’ha proposto mia sorella a Natale. Ci ho pensato un po’ e poi ho cominciato a scriverlo a ripetizione sulle pagine del libro che stavo leggendo, Furore di Steinbeck, e mi sono reso conto che era il titolo giusto. Ho scartato molti titoli in italiano. Come dici tu, dal punto di vista musicale il disco è carichissimo, tracotante. Volevo un titolo che riassumesse tutto il senso dell’album senza essere ingombrante.
Anche i titoli delle canzoni sono molto brevi ed essenziali.
I testi li ho scritti alla fine. Quando ho composto le melodie ho cominciato a cantare in modo ossessivo alcune parole: sole, sale, fame, sete, pietra. Nel disco precedente, La Macarena su Roma, per ogni canzone ero partito da un fatto di cronaca che avevo letto sul giornale o visto al tg, da una foto o da un racconto. Con Die è stato diverso. L’immaginario arcaico è venuto fuori in modo spontaneo, non potevo che assecondarlo. Queste parole mi davano contemporaneamente un senso di illuminazione e di cupezza. Il sole che mi ossessionava non era un sole rassicurante, ma drammatico. Ho lavorato anche sulla base delle letture di quel periodo: John Steinbeck, Ernest Hemingway, Albert Camus e Cesare Pavese, di cui ho letto e riletto in modo ossessivo il poemetto La terra e la morte. Ma anche autori sardi come Giuseppe Dessì e Salvatore e Sebastiano Satta. È stato un lavoro lungo e faticoso, perché è più difficile raccontare una cosa in venti parole che in venti pagine.
Siamo in un’epoca di naufragi, in particolare nel mar Mediterraneo. Nel disco precedente ne avevi parlato in modo piuttosto esplicito con Summer on a spiaggia affollata, mentre in Die ti sei concentrato su una dimensione più esistenziale. C’è qualcosa della nostra contemporaneità che si riflette nella storia dei due protagonisti dell’album?
Il mio obiettivo è quello di non essere schiavo della cronaca. Quando ho scritto La Macarena su Roma mi interessava adottare un punto di vista, ragionando quasi in termini cinematografici, e far emergere delle contraddizioni. Per Die ho cercato di andare più alla radice. Guardando le immagini dei migranti, oggi mi interessa solo in parte pensare a cosa pensa la donna sul bagnasciuga, ma voglio sapere il vissuto dei migranti. M’interessa l’empatia. Per usare una parola un po’ retorica, direi la fratellanza. Se vedo delle persone disperate sbarcare, penso che magari dall’altra parte del mare c’è qualcuno che, come la donna di Die, sta sulla riva e aspetta il loro ritorno. Io vengo da una famiglia di pescatori e per me il mare è una chiave di lettura naturale. E Die non è necessariamente un naufragio, semplicemente il racconto della paura della morte.
Nel 1998 al teatro Brancaccio Fabrizio De André raccontò che quando nel 1970 aveva pubblicato La buona novella, in un periodo di lotte studentesche, molti lo avevano accusato di aver fatto un disco anacronistico. Secondo lui non avevano capito che La buona novella era un’allegoria e aveva un contenuto politico se possibile ancora più forte. Forse tu ti trovi in una situazione simile. Consideri Die un disco più politico rispetto alla Macarena su Roma?
Die è una riflessione sul linguaggio musicale e lirico, sul legame tra l’uomo e gli altri esseri viventi. È stato fatto con una cura e un dispendio di tempo assolutamente fuori moda per l’Italia di oggi. È una rivendicazione culturale e quindi un atto politico. Qualcuno magari si aspetta da me una canzone sull’Italia di oggi. Ma l’Italia di oggi non è niente, è una cosa in divenire. Il lessico politico ha invaso tutti gli ambiti e siamo finiti a confondere la politica con la cronaca, l’attualità con l’impegno, l’attualità con il sociale. La Macarena su Roma non è più politico della Buona novella, né del Vangelo secondo Matteo, né di Moby Dick. Un’opera assume un significato politico a posteriori. Per farla breve, bisogna distinguere tra dischi d’attualità e dischi politici. Die è un gesto politico molto più forte della Macarena su Roma.
È difficile suonare dal vivo i pezzi nuovi?
Ho più macchine rispetto a prima. Ora ho due campionatori, un Mac pilotato con una periferica midi, una loop machine, chitarra e voce. È molto faticoso, quando finisco i live sono stremato, anche perché dal punto di vista vocale i brani sono più complicati. Ma è più divertente.
Cosa stai ascoltando ultimamente?
L’ultimo disco di Paolo Angeli, il nuovo di Kendrick Lamar, Jon Hopkins. Sto consumando Endkadenz vol. 1 dei Verdena, un gruppo italiano che stimo molto perché si mette in discussione ogni volta. Die gli è piaciuto molto e mi hanno chiesto di aprire il loro concerto a Ferrara il 15 luglio. Un onore.
Cos’è per te un cantautore? Tu ti senti un cantautore?
Per me i cantautori sono Lou Reed, Robert Wyatt, Francesco Guccini, Brian Wilson, Tim Buckley, ma anche un dj che fa techno. È solo una categoria creata per mettere i prodotti sugli scaffali. Per l’Italia, che è un paese conservatore, il cantautore è colui che dice la verità. È un’immagine consolatoria e reazionaria, di destra, con cui non voglio avere un cazzo a che fare.
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