Se è vero che Internazionale tende a limitare il più possibile l’uso di parole straniere, come mai negli articoli sull’Italia dello scorso numero ce ne sono tre che si potevano evitare? Evidentemente non ci sforziamo abbastanza. Come osserva Enzo Vignoli, quel think tank a pagina 14 “poteva essere reso con ‘commissione di esperti’”.
A pagina 18 invece, si parla di un’Italia che rischia il
default. È una parola “entrata prepotentemente nel linguaggio economico”, ammette il nostro lettore. Ma è ambigua, perché “è traducibile con ‘inadempienza’ o simili, ma è spesso usata per indicare il ben più drammatico evento del ‘fallimento’ o della ‘bancarotta’”. Meglio usare il termine italiano adatto all’occasione. In questo caso, “insolvenza”.
Non è detto che il governo di Enrico Letta riuscirà a evitarla, ma almeno il paese è “uscito da una situazione di impasse”, scrive Le Monde (pagina 14). “Però”, insiste Vignoli, “perché non usare il nostro ‘stallo’ o ‘vicolo cieco’?”. Non c’è motivo. Ogni tanto capita di ricorrere a una lingua straniera per trovare quello che Gustave Flaubert chiamava le mot juste, il termine giusto. Anche se quasi sempre esiste un corrispettivo italiano più chiaro e meno pretenzioso.
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