Richard Sennett, Lo straniero

Feltrinelli, 101 pagine, 15 euro

Il più bel libro di Richard Sennett, Il declino dell’uomo pubblico, pubblicato nel 1977 (e tradotto da Bruno Mondadori) descriveva il modo in cui le città moderne avevano reso possibile e fruttuosa la convivenza tra persone che non si conoscevano.

Per tutta la sua carriera questo sociologo britannico ha cercato di capire come nuove condizioni di vita, di lavoro, ma soprattutto di residenza e di sfruttamento dello spazio modificano i rapporti interpersonali. In questi due saggi affronta un aspetto particolare di questo stesso tema: il modo in cui gli stranieri riflettono su se stessi. Il primo studio tratta degli ebrei a Venezia nell’epoca di Shakespeare e si sofferma sulla nascita del primo ghetto, mostrandone il ruolo nella costruzione di un’identità ebraica in precedenza assai meno rigida e definita.

Il secondo si sposta nell’ottocento e, a partire dalla figura di Alexander Herzen, tratta di un effetto non immediatamente evidente dell’affermazione dei nazionalismi, quello di costringere gli stranieri a scegliere dolorosamente tra due infelicità: l’assimilazione o la nostalgia. Con la sua tipica accumulazione di argomenti tratti da ambiti diversi, Sennett segnala il pericolo delle politiche di separazione che periodicamente le società ripropongono, sia sul piano materiale, sia su quello delle categorie culturali, suggerendo qualche strategia per depotenziarle e permettere agli uomini di trovare il proprio spazio.

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