Gentile bibliopatologo,
sono una dottoranda in letteratura francese e da ormai cinque anni trascorro le mie giornate in compagnia d’una logorroica scrittrice morta che preferisco non citare apertamente. Le devo tanto. È merito suo, per esempio, se ho incontrato colui che oggi è mio marito e padre di mio figlio. Eppure la detesto visceralmente, perché non riesco a liberarmene. Ogni volta che penso di averla inquadrata e di essere finalmente pronta a redigere le mie umili scoperte, lei riesce a sgattaiolare dalla mia presa rivelando nuovi aspetti di sé che m’inducono a rileggere ancora e ancora quanto ho già letto e riletto, in cerca di elementi che potrebbero essere sfuggiti alla mia analisi. E quindi continuo ad accumulare e ad ampliare schede di lettura, in vista d’un lavoro di scrittura che, però, non comincia mai. Come uscire dal labirinto del perfezionismo maniacale e sbarazzarmi, in un colpo solo, della sfuggente grafomane di cui sopra e della pagina bianca?
—ClaireSombre
Cara ClaireSombre,
Sigmund Freud parlava di analisi terminabile e interminabile, ma l’esperienza universitaria insegna che è più facile chiudere una cura psicoanalitica che una tesi di dottorato. Il dottorando medio è assai più paralizzato e impegolato nelle sue angosce del paziente freudiano medio, e a differenza di quest’ultimo deve leggere e scrivere moltissimo, rispettando scadenze che tenta con ogni espediente di prorogare. Come se non bastasse, invece di rilassarsi su un lettino è costretto a ingobbirsi su uno scrittoio. Prima di indirizzarti al lettino, però, eccoti una pagina di Evagrio Pontico, monaco vissuto nel quarto secolo, quando non c’erano psicoanalisti in giro, ma a quanto pare c’erano già bibliopatologi:
L’accidioso, quando legge, sbadiglia spesso, e cade facilmente nel sonno, si sfrega il viso, stende le braccia e alza gli occhi dal libro, fissandoli alla parete. Messosi ancora un po’ a leggere, si affatica inutilmente, ritornando sul significato delle parole; conta le pagine, valuta l’impaginazione, critica la scrittura e l’ornato. Alla fine, chiuso il libro, ci mette la testa sopra e dorme un sonno decisamente non profondo, perché la fame risveglia la sua anima e le angosce riprendono.
Ora senti come lo psicoanalista Edmund Bergler, più di millecinquecento anni dopo, ritrae lo scrittore davanti alla pagina bianca nel saggio The writer and psychoanalysis:
Il poveruomo tempera la matita per prendere appunti, ma poi gli sembra che la punta non sia abbastanza affilata; la macchina da scrivere lo fissa con un’espressione di rimprovero; semplicemente non è nell’umore giusto, ma lo sarà domani (salvo che quel domani non arriva mai); ha una lieve nausea e deve prima curare il suo stomaco scombussolato; vorrebbe bere qualcosa, ma un bicchiere tira l’altro, e dopo alcuni bicchieri si sente assonnato; indulge in fantasie di grandezza, si gode la ricompensa di traguardi mai raggiunti, e al termine di tutto questo dimenarsi e rigirarsi avverte solo una profonda depressione.
Suona familiare, vero? Dopo vent’anni passati a studiare scrittori affetti dal blocco creativo, Bergler arrivò alla conclusione (la semplifico un po’) che lo scrittore è come un imputato davanti al tribunale del suo super-io, e la sua opera non è che una lunga arringa difensiva. Di che cosa è accusato, chi emetterà la sentenza, quale sarà la pena? Non serve aver letto Kafka per sapere che poche domande sono più enigmatiche. Ma tu non devi scrivere un romanzo, devi scrivere una tesi di dottorato, e il tuo super-io ha un alter ego ben preciso, anche se non osi farne il nome.
Verso la tua autrice, non per caso, ostenti tutta l’“ambivalenza” di cui parlava Freud. Le riservi espressioni cariche di distruttività sadica (“logorroica scrittrice morta”), ma il tuo impulso è frenato dalla gratitudine (le devi un marito e un figlio). Alterni una deferenza sospettamente servile (“le mie umili scoperte”) a un franco disprezzo (“la detesto visceralmente”). Vorresti ucciderla, ma la tua inibizione amletica prende la forma di letture e riletture, schede preparatorie, alibi per l’eterna procrastinazione.
È tempo di compiere il crimine simbolico così lungamente preparato. Ma c’è un solo terreno su cui puoi braccare la preda della “sfuggente grafomane”: gli alba pratalia della pagina di Word; e un solo strumento per tappare la bocca alla logorroica francese: la parola. Comincia, comincia oggi stesso, partendo da qualunque punto, foss’anche da una frase a caso. Scaccia con impazienza la voce molesta che ti dice che quel che scrivi è imperfetto, insufficiente, provvisorio: è un’aggressività da rivolgere altrove.
Ascolta solo la voce che ti spinge alla vendetta. È solo dopo aver ucciso simbolicamente i propri padri che si può provare verso di loro una gratitudine autentica, non intorbidata dai ricatti emotivi, purché lo si sia fatto a testa alta e con lealtà cavalleresca. Se segui il mio consiglio, potresti trovarti (spoiler alert) come Uma Thurman nella catartica scena finale di Kill Bill 2: riversa sul pavimento del bagno a singhiozzare, non si sa se di dolore o di gioia, e a sussurrare thank you, thank you all’uomo che ha ucciso al culmine di una elaborata vendetta.
Purtroppo, però, la tecnica dell’esplosione del cuore con cinque colpi delle dita non ha equivalenti nelle arti marziali del dottorato, anche se è pieno di professori ben più canuti e crudeli di Pai Mei.
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