Nel loro libro di prossima pubblicazione, Nine lies about work (Nove bugie sul lavoro), Marcus Buckingham e Ashley Goodall, fanno un’affermazione sorprendente, che va ben oltre il mondo del lavoro: sostengono infatti che non vale mai la pena dire alle persone quello che secondo voi fanno bene o male, o come farlo meglio.

Questo pare contraddire l’attuale tendenza alla “drastica franchezza” di certe aziende, come per esempio Netflix, dove, secondo un recente rapporto, sembra che i dipendenti che sbagliano siano inesorabilmente “svergognati” davanti ai colleghi (quando qualcuno viene licenziato, centinaia dei suoi ex colleghi possono ricevere un’email necrologio in cui sono elencati tutti i suoi errori). E contraddice anche l’ipotesi condivisa da molti di noi – come genitori, coniugi, superiori o amici – secondo cui, a volte, e se lo si fa con delicatezza è utile spiegare agli altri dove stanno sbagliando.

Buckingham e Goodall non solo sostengono che dovremmo tenerci tutta questa saggezza per noi, ma che probabilmente non abbiamo la più pallida idea di come potrebbe cambiare in meglio un impiegato che sbaglia (o un coniuge che ci fa infuriare). Secondo un vecchio cliché della vita coniugale, dovremmo sempre usare affermazioni che cominciano con “io” invece che con “tu”, cioè dire all’altra persona come ci fa sentire il suo comportamento, invece di accusarla di essere egoista o incompetente.

Sentimenti ed esperienza
La spiegazione standard è che nel secondo caso le persone tendono a mettersi sulla difensiva, ma un’altra possibilità è che non siamo in grado di giudicare se qualcuno è egoista o incompetente. Come scrive Buckingham: “L’unico campo in cui gli esseri umani sono portatori di verità inoppugnabile è quello dei loro sentimenti e delle loro esperienze”.

Moltissime ricerche hanno dimostrato che siamo particolarmente incapaci di giudicare gli altri in base a criteri astratti, il che significa che una delle caratteristiche più comuni dei giudizi sulle prestazioni di un impiegato – per esempio quella di valutare se è un pensatore strategico o un buon compagno di squadra – è fondamentalmente inutile (in realtà, vista la moda dei giudizi “a 360 gradi”, in cui tutti valutano tutti, sono peggio che inutili: perché si guarda attraverso molteplici lenti deformanti invece che una sola).

Il modo migliore per elogiare qualcuno non è valutare il suo talento ma dirgli come ci ha fatto sentire

Secondo gli autori del saggio, questo tipo di giudizi dovrebbe essere sostituito da “reazioni”. Non dite agli altri quello che pensate delle loro capacità o quanto pensate che siano bravi, ma provate a spiegargli come percepite il loro lavoro. Non siete in grado di stabilire come qualcun altro dovrebbe cambiare il suo stile, per esempio, nelle presentazioni, ma avete tutto il diritto di dirgli se una certa presentazione vi ha convinto o vi ha annoiato.

I due autori dimostrano anche che le reazioni positive funzionano meglio di quelle negative: diamo il meglio di noi “quando le persone che ci conoscono e ci vogliono bene ci descrivono le loro sensazioni, in particolare se percepiscono qualcosa che funziona veramente”.

C’è una profonda verità in questo: il modo migliore per elogiare qualcuno non è valutare il suo talento ma dirgli come ci ha fatto sentire. Dopotutto, è straordinariamente arrogante fare i complimenti a qualcuno perché è un bravo scrittore, stratega, compagno di squadra e così via: chi ci autorizza a giudicarlo? Ma elogiarlo perché ci ha ispirato, convinto o aiutato a capire un argomento complesso è una cosa completamente diversa. Di questo gli unici veri giudici siamo noi.

Da ascoltare
Una puntata del podcast della National public radio Hidden brain intitolato Switchtracking esplora tutti i modi in cui tendiamo a sviare una conversazione in cui siamo oggetto di critiche cercando discretamente di cambiare discorso.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano britannico The Guardian.

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