Sentiamo spesso parlare dei vantaggi di riconoscere la sconfitta, ma in genere ci si riferisce alle grandi sconfitte: fare bancarotta, non sapere più come tirare avanti perché abbiamo investito tutti i nostri risparmi in una startup destinata al fallimento.

Ma la maggior parte delle sconfitte è graduale e meno eclatante. Decidiamo di migliorare qualcosa – la nostra vita, il nostro rapporto, le nostre finanze, la nostra comunità – e per un po’ la cosa funziona. Ma poi la nostra carica si esaurisce e riprendiamo le vecchie abitudini.

Magari diamo la colpa alla mancanza di autodisciplina o concludiamo che le circostanze erano contro di noi. Ma c’è una spiegazione più affascinante per questo tipo di sconfitte, per quanto paradossale possa sembrare: e se cercare di risolvere il problema fosse il motivo per cui non abbiamo risolto il problema?

L’elastico in una stanza
L’esperto di creatività Robert Fritz spiega questa idea nel suo libro del 1984 The path of least resistance, e una volta che qualcuno ce l’ha detto sembra ovvio: se abbiamo un problema e facciamo qualcosa per ridimensionarlo, avremo un problema minore e, naturalmente, saremo meno motivati ad affrontarlo. Fritz usa l’esempio della carestia dei primi anni ottanta in Etiopia che fece partire aiuti da tutto il mondo, fino a quando “la situazione è migliorata. I mezzi d’informazione hanno perso interesse. Sempre meno foto di bambini affamati sono arrivate ai telegiornali della sera e gli aiuti sono diminuiti” anche se il problema era ben lungi dall’essere risolto in modo definitivo.

Forse è di cattivo gusto tracciare un’analogia tra una tragedia umanitaria e, diciamo, i nostri problemi coniugali o il nostro lavoro insoddisfacente. Ma una certa analogia c’è. Se qualcosa è intollerabile e facciamo il minimo indispensabile per renderlo tollerabile, torneremo a tollerarlo fino a quando non peggiorerà di nuovo. Ma così le cose non migliorano mai in modo duraturo.

Il problema di fondo è che abbiamo due obiettivi contraddittori: vogliamo un matrimonio felice o un lavoro significativo, ma non vogliamo sopportare il disagio di modificare o di abbandonare il nostro rapporto o il nostro lavoro attuale. Quindi cerchiamo di realizzare il primo obiettivo (quello di migliorarlo) fino a quando non comincia a entrare in conflitto con il secondo (evitare un cambiamento scomodo), e a quel punto invertiamo la rotta.

Quando ci concentriamo sulla soluzione di un problema, non possiamo fare a meno di portarci dietro le ipotesi che lo accompagnano

Fritz ci chiede di immaginarci in piedi al centro di una stanza, con due enormi elastici intorno alla vita attaccati a due pareti opposte. Se ci spostiamo verso una parete per allentare la tensione di un elastico, aumentiamo la tensione dell’altro, fino a quando non sarà abbastanza forte da farci tornare al centro della stanza.

Qual è la soluzione? Quella di Fritz riempie diversi volumi, ma per semplificare il trucco è smettere di concentrarsi sui problemi (tranne che nelle emergenze, quando non abbiamo altra scelta) e chiederci piuttosto che cosa vogliamo creare. Quando ci concentriamo sulla soluzione di un problema, non possiamo fare a meno di portarci dietro le ipotesi che lo accompagnano, tra cui una gamma molto ristretta di esiti positivi, e questo equivale a dire “voglio che questo problema scompaia”. Dimenticate tutto ciò. Decidete che cosa volete, fate i conti con la vostra realtà, e poi intraprendete le azioni necessarie per inventare il risultato che cercate.

Ovviamente, questa spiegazione sommaria fa sembrare la cosa più facile di quello che è. Ma aver semplicemente rinunciato alla prospettiva di dover risolvere il problema è un ottimo inizio. Quello che emerge al suo posto potrebbe non funzionare; ma almeno non rischierete di migliorare le cose solo quel tanto che basta per non migliorarle.

Consigli di lettura
Robert Fritz espone il suo programma per creare qualsiasi cosa in The path of least resistance (1984) e Your life as art (2003).

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.

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