Benjamin Netanyahu ha perso la sua scommessa. È questa l’unica certezza dopo le elezioni politiche israeliane del 17 settembre, le seconde nel giro di cinque mesi. La situazione resta incerta e di sicuro ci vorranno giorni o settimane prima di capire a cosa somiglierà il prossimo governo, ma è evidente che Netanyahu, dominatore della politica israeliana per due decenni e amico sia di Donald Trump sia di Vladimir Putin, non ha ottenuto la vittoria in cui sperava e per cui ha moltiplicato le promesse e i colpi di scena.

Il risultato del Likud (arrivato secondo) e dei suoi alleati nell’ultima coalizione di governo non dovrebbe infatti consentire a Netanyahu di ottenere nuovamente l’incarico di primo ministro. “Bibi” non ha ancora detto la sua ultima parola e può riservare ancora qualche sorpresa, ma “la magia di Netanyahu” non funziona più, come ha sottolineato il quotidiano Haaretz.

Questo fallimento avrà profonde conseguenze sul piano personale per Netanyahu, che sperava di tornare al potere per difendersi dai processi per corruzione a suo carico, magari ottenendo un’immunità che ora sembra del tutto esclusa.

Polarizzazione sorprendente
In queste elezioni, trasformate in un referendum “pro o contro” Netanyahu, l’aspetto etico è stato decisivo, tra sostenitori pronti a perdonare tutto al leader carismatico e critici stanchi di essere governati da un uomo che si considera al di sopra della legge.

Questa polarizzazione è tanto più sorprendente se consideriamo che le differenze politiche tra i due grandi partiti, il Likud di Netanyahu e l’alleanza Bianco e blu dell’ex capo di stato maggiore Benny Gantz, sono minime. I biancoblu si distinguono dal Likud proponendo più misure di buon governo (per esempio un limite al numero dei mandati di un primo ministro) e una maggiore trasparenza.

La questione palestinese è diventata la grande assente delle campagne elettorali

La sera del 17 settembre questa vicinanza ha permesso alla formazione di Gantz – che al pari del Likud non ha i numeri per formare una maggioranza – di proporre un governo di unità nazionale, con un’unica condizione: che il Likud escluda il suo leader attuale, Benjamin Netanyahu.

In questo voto la questione palestinese è del tutto assente. Nel 1996, quando Netanyahu ha vinto le sue prime elezioni alla guida del Likud, gli israeliani votavano a favore o contro la pace con i palestinesi, sull’onda degli accordi di Oslo e dell’omicidio di Yitzhak Rabin.

Da allora la società israeliana, sotto la spinta di Netanyahu, ha virato nettamente a destra, e la questione palestinese è diventata il grande assente delle campagne elettorali. Il primo ministro ha tentato di galvanizzare i suoi elettori promettendo l’annessione di un terzo della Cisgiordania e rendendo ancora più impossibile l’ipotesi di uno stato palestinese. Ma non ha funzionato.

Ora bisognerà inventare un Israele senza Netanyahu. Le condizioni per un nuovo processo di pace non esistono, ma l’uscita di scena possibile (meglio essere prudenti) dell’uomo che incarnava la morte dell’accordo precedente apre un’altra pagina nel paese, ancora tutta da scrivere.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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