Con dieci milioni di disoccupati in più nell’arco di due settimane, gli Stati Uniti sono in grande difficoltà. L’aumento è venti volte più rapido di quanto non sia stato durante la crisi finanziaria del 2008, e testimonia l’impatto devastante della pandemia che sta colpendo tutti i continenti.
Ma non tutti fanno le stesse scelte davanti al dissesto economico e sociale causato dal Covid-19. Questione di storia, di cultura e di sistema politico.
Il 2 aprile, nel momento in cui gli Stati Uniti vedono decollare il numero di disoccupati, il New York Times si interessava a cosa accade sull’altra sponda dell’Atlantico, in Europa e soprattutto in Francia, dove è stato privilegiato un approccio radicalmente diverso. Secondo il quotidiano “la Francia fa una grande scommessa” scegliendo di impedire alle imprese e ai dipendenti di affondare.
Se milioni di statunitensi hanno perso il posto di lavoro (un numero che continua a crescere) la Francia conta quattro milioni di lavoratori in disoccupazione parziale, ovvero ancora legati alle rispettive aziende ma con il salario versato (in parte o del tutto) dallo stato.
Flessibilità e incertezza
L’idea seguita dalla Francia, e parzialmente anche dal resto d’Europa, è che in questo modo l’economia potrà ripartire più rapidamente una volta superata l’epidemia. Gli americani, invece, sono più flessibili e abituati alle vite professionali incerte e a uno stato meno assistenziale.
In apparenza il metodo statunitense è più brutale, e i mezzi d’informazione sono rimasti sorpresi dalla rapidità con cui le aziende hanno licenziato i dipendenti una volta avvistato il temporale all’orizzonte. Tuttavia il piano di aiuti da duemila miliardi di dollari adottato la scorsa settimana dal congresso ha previsto un ammortizzatore per i dipendenti, ampliando i criteri per usufruire del sussidio di disoccupazione e aggiungendo 600 dollari alla settimana all’indennità prevista. Il grosso problema è la copertura sanitaria, spesso vincolata al contratto di lavoro e non universale come accade nella maggior parte dei paesi europei.
Una delle conseguenze della crisi è il ritorno del ruolo centrale dello stato
In passato abbiamo contrapposto più volte il “capitalismo anglosassone”, più incline al rischio, al “capitalismo renano”, influenzato del modello scandinavo e da quello tedesco, più protettivo. Il liberismo degli ultimi decenni aveva dato l’impressione di cancellare questa divisione, con tutti i danni collaterali che conosciamo.
Una delle conseguenze della crisi è il ritorno del ruolo centrale dello stato, su entrambe le sponde dell’Atlantico (anche se negli Stati Uniti la considerano una breve parentesi).
A tutto questo possiamo aggiungere la situazione in Cina, dove è il capitalismo di stato a manovrare per rilanciare l’economia dopo il Covid-19, e quella della Russia, dove il 2 aprile Vladimir Putin ha annunciato la chiusura delle aziende fino alla fine del mese, aggiungendo una frase lapidaria: “I dipendenti saranno pagati”.
Esiste dunque un punto in comune tra questi approcci radicalmente diversi: il ritorno di quello stato che avevamo dato per indebolito sotto i colpi della finanza e delle multinazionali, e che oggi invece appare necessario e desiderato come mai prima. Quando tutto questo sarà finito, faremo bene a ricordarcene.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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