A partire da oggi non ci sarà più un’opposizione all’interno del parlamento di Hong Kong. I parlamentari d’opposizione, infatti, si sono dimessi in massa per protestare contro una nuova riduzione dell’autonomia del territorio, decisa da Pechino e causa dell’espulsione di alcuni deputati.

Dopo l’imposizione di una legge sulla sicurezza nazionale, nel luglio del 2020, è partito un processo di normalizzazione dell’ex colonia britannica, tornata in mani cinesi nel 1997. L’impegno di Pechino a garantire per mezzo secolo una larga autonomia a Hong Kong si è progressivamente affievolito.

Il Legco, il consiglio legislativo di Hong Kong, è l’ultima vittima di questo processo. I 70 parlamentari che lo compongono sono eletti per metà a suffragio universale, mentre gli altri rappresentano le circoscrizioni funzionali, cioè i settori economici e sociali del territorio. Si tratta di un’eredità dell’epoca coloniale. I democratici rappresentavano il primo gruppo politico, davanti ai partigiani di Pechino che però conservavano la maggioranza grazie ai rappresentanti delle categorie professionali.

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Negli ultimi anni una nuova generazione più critica e a volte palesemente anti-Pechino ha fatto il suo ingresso nel Legco. Questa generazione è finita nel mirino a causa del suo “mancato patriottismo”, che secondo la Cina dovrebbe tradursi in obbedienza al governo centrale.

In passato i rappresentanti democratici sono stati espulsi a più riprese, per esempio quando si sono rifiutati di prestare un giuramento di fedeltà nei confronti della Cina. Ma in quel caso, quanto meno, la decisione era passata attraverso un sistema giudiziario che mantiene un minimo di indipendenza. Ora Pechino ha deciso di assegnare questa prerogativa al governo di Hong Kong (che controlla) tagliando fuori i tribunali.

Ogni settimana arrivano segnali inequivocabili della stretta di Pechino

L’11 novembre quattro giovani parlamentari sono stati espulsi dall’assemblea. La decisione ha provocato le dimissioni collettive degli altri diciannove democratici, in segno di solidarietà con i colleghi. “È la fine dell’approccio ‘un paese, due sistemi’” ha esclamato uno dei parlamentari, riferendosi al principio di autonomia promesso da Pechino.

Le dimissioni dei parlamentari non sono l’unica prova del nuovo corso. Ogni settimana arrivano segnali inequivocabili della stretta di Pechino. Il mese scorso sono stati nominati due vicepresidenti dell’università di Hong Kong: entrambi provengono dalla Cina continentale, e uno dei due ha fatto parte del comitato del Partito comunista della sua università nella capitale cinese.

Lo stesso processo riguarda i mezzi d’informazione. La settimana scorsa è stata arrestata una documentarista indipendente, mentre un editore piuttosto irriverente, Jimmy Lai, sarà processato a breve.

La normalizzazione di Hong Kong non si fermerà. Xi Jinping ne fa una questione di autorità del potere centrale, dopo mesi di manifestazioni spesso violente. Le proteste internazionali non hanno avuto alcun effetto.

Il deterioramento dei rapporti tra la Cina e il mondo occidentale, a cominciare dall’amministrazione Trump, è arrivato al punto tale che Pechino ritiene di non poter ottenere nulla di positivo da eventuali concessioni a Hong Kong. La marcia che porterà al rientro definitivo del territorio sotto il controllo della Cina ha subìto un’accelerata. La libertà politica si ridurrà progressivamente, fino a quando Hong Kong non sarà del tutto allineata alla Cina continentale.

Molti giovani leader della protesta si sono rifugiati all’estero. Dodici di loro sono stati arrestati mentre cercavano di raggiungere Taiwan via mare, e saranno processati in Cina. Quelli che sono rimasti a Hong Kong sanno di essere sorvegliati con attenzione.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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