Negli otto anni di intervento armato francese nel Sahel sono morti 55 militari, cinque solo nell’ultima settimana. Come in precedenza, insieme ai discorsi commemorativi è stato ribadito l’impegno di proseguire la missione, anche se è stato sollevato qualche timido interrogativo sulla strategia adottata.

Le morti causate il 2 gennaio da ordigni esplosivi artigianali piazzati sulle piste del deserto del Mali non fanno eccezione. E non bisogna dimenticare che lo stesso giorno sono state uccise cento persone in due villaggi del Niger occidentale, non lontano dalla frontiera con il Mali; cento civili uccisi per non aver voluto schierarsi nel conflitto armato che oppone i gruppi armati e gli eserciti dei paesi saheliani.

A questo punto s’impone una constatazione: nonostante i successi militari annunciati, con la regolare “eliminazione” di leader di gruppi jihadisti, questi ultimi continuano a colpire gli stati della regione, le popolazioni prese tra due fuochi e l’esercito francese, ultimo bastione di governi largamente impotenti. La risposta, di conseguenza, non può essere unicamente militare.

Da diversi anni la Francia, coinvolta direttamente dopo l’intervento deciso nel 2013 da François Hollande per fermare una colonna jihadista che si avvicinava a Bamako, tenta una doppia strategia: prima di tutto rafforzare gli eserciti africani per permettergli di assumere un ruolo più importante sul campo, cercando di “europeizzare” il sostegno esterno per non lasciare sola la Francia, facile obiettivo a causa del suo passato coloniale.

In secondo luogo, Parigi vorrebbe sollecitare la risposta civica in una regione dove l’autorità del governo è carente e gli stati sono troppo deboli per sconfiggere gruppi che sanno sfruttare le contraddizioni locali, etniche, religiose, economiche e sociali.

Si tratta del tipico dilemma degli interventi militari, in cui il momento adatto al ritiro non arriva mai

Il problema è che questa strategia offre risultati più lentamente rispetto alla progressione dei gruppi terroristi, e questo rende impossibile un ritiro o anche un alleggerimento significativo della presenza francese, a meno di non voler abbandonare questi paesi a una minaccia realmente concreta.

In un’intervista concessa a Le Monde l’estate scorsa, il capo di stato maggiore francese, il generale François Lecointre, sottolineava che l’impegno francese dovrà prima o poi finire. “L’importante è farlo al momento giusto, valutando i rischi”.

Questo “momento giusto” non è ancora arrivato, almeno secondo Parigi. In realtà si tratta del tipico dilemma degli interventi militari (pensate all’Afghanistan), in cui il momento adatto al ritiro non arriva mai perché i risultati ottenuti appaiono sempre troppo fragili.

È la piaga delle guerre senza fine e impossibili da vincere. I gruppi terroristi infliggono perdite nella speranza di spingere le forze straniere ad andarsene, ma queste ultime non possono accettare un ritiro forzato per non dover concedere la vittoria al nemico.

Resta l’ultima opzione, ancora tabù a Parigi: il negoziato. Diversi leader africani ne stanno valutando la possibilità, e l’accordo concluso tra gli Stati Uniti e i taliban potrebbe rappresentare un precedente.

Ma una trattativa di questo tipo non è ancora all’ordine del giorno. Per il momento Parigi stringe i denti e si prepara a modificare la sua strategia, senza però rimetterla in discussione. Il tempo delle grandi revisioni non è ancora arrivato.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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