Quando i cittadini di un paese si definiscono in base alla propria appartenenza a un gruppo etnico è lecito temere il peggio. È ciò che sta accadendo ad Addis Abeba, capitale dell’Etiopia, dove secondo Amnesty international è in corso “un’ondata di arresti su base etnica”.

Migliaia di abitanti della capitale originari della provincia del Tigrai sono stati arrestati con l’accusa di aiutare il Fronte popolare per la liberazione del Tigrai (Tplf), spesso sulla base di denunce arbitrarie. Secondo il rapporto di Amnesty i prigionieri si troverebbero all’interno di sei centri di detenzione, privati di ogni diritto.

Questo clima del sospetto nei confronti dei tigrini, al centro di una guerra che continua a espandersi, fa temere ad alcuni diplomatici una deriva “alla ruandese”, un riferimento sinistro al genocidio dei tutsi del 1994, o simile al disfacimento della Jugoslavia e alla relativa “purificazione etnica”.

Il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha condannato i “discorsi dell’odio” in Etiopia e ha chiesto invano un cessate il fuoco. L’appello è tanto più urgente se consideriamo che la situazione dei civili nel Tigrai, isolato dal resto del mondo esterno da un blocco militare, continua a peggiorare.

Tutto è cominciato l’anno scorso, quando il primo ministro etiope Abiy Ahmed, tra l’altro insignito del premio Nobel per la pace nel 2019, ha lanciato una spedizione punitiva contro i leader del Tplf, colpevoli di aver sfidato il potere centrale. Annunciato come un’operazione rapida, l’intervento dell’esercito federale è stato disastroso e ha provocato una guerra.

Le forze del Tigrai, che si sono temprate nel corso dei lunghi anni trascorsi al potere, minacciano lo stato federale dopo aver stretto un’alleanza con altri gruppi ribelli del paese.

L’ex impero etiope, con una popolazione di oltre cento milioni di abitanti, pensava di aver trovato nella costituzione di stampo etnofederalista il modo di arginare le forze centrifughe. Ma le rivalità politiche ereditate da un passato recente turbolento e gli antagonismi regionali minacciano di far crollare l’edificio trascinando con sé l’intero corno d’Africa.

L’ultima mediazione è stata tentata dal segretario di stato americano Anthony Blinken, che il 16 novembre ha cominciato un viaggio in Africa dal Kenya, paese vicino dell’Etiopia. Gli Stati Uniti hanno un rapporto di lunga data con l’Etiopia e sperano di poter esercitare un’influenza sufficiente per disinnescare la crisi. La mediazione si unisce a quella tentata dall’Unione africana, l’organizzazione continentale che ha la sua sede proprio ad Addis Abeba.

Ma gli ingranaggi della guerra civile in corso in Etiopia sono già in fase avanzata, con un etnonazionalismo facile da incendiare ma difficile da spegnere. Questo conflitto interno ha già prodotto una serie di massacri commessi dalle diverse parti e considerati dall’Onu come crimini di guerra, compresi stupri di massa e diverse manovre per affamare la popolazione. Il potenziale di escalation è considerevole, con la moltiplicazione delle milizie di quartiere e la diffusione incontrollata dei sospetti.

Sarebbe terribile se il mondo, ancora una volta, si rivelasse incapace di fermare una tragedia annunciata.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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