Torniamo indietro nel tempo, all’inizio del 2019: dopo la fine del califfato del gruppo Stato islamico (Is) con la caduta degli ultimi bastioni per mano dei curdi siriani appoggiati dalla coalizione internazionale, altrove erano emersi diversi avatar dell’Is, ma la sensazione era di aver risolto il problema nella zona a cavallo tra Siria e Iraq, dove l’organizzazione si era inizialmente affermata.
Eppure alla fine della scorsa settimana un centinaio di combattenti dell’Is ha assaltato una prigione controllata dai curdi siriani nei pressi della città di Al Hasaka, nel nordest del paese, nel tentativo di liberare migliaia di detenuti. Al contempo alcune “cellule dormienti” dell’Is hanno attaccato una serie di campi gestiti dai curdi nella regione, dove vivono i familiari dei jihadisti.
Sono serviti migliaia di combattenti delle Forze democratiche siriane (Fds, composte in maggioranza da curdi) e l’intervento dell’aviazione statunitense per respingere i ribelli, che avevano anche catturato diversi ostaggi tra cui alcuni bambini. Il bilancio di sei giorni di combattimenti, terminati il 26 gennaio, è ancora incerto, ma i morti si contano a decine. Diversi detenuti sono evasi.
Da mesi ormai si segnala un ritorno dell’Is, in Siria ma anche in Iraq. A dicembre il video della decapitazione di un poliziotto iracheno ha sconvolto la popolazione, che sperava di poter ritrovare la pace dopo quindici anni di caos e guerra.
Questo ritorno della violenza jihadista dimostra la capacità dell’Is di operare nell’ombra nonostante i colpi subiti nel 2018 e nel 2019, ma illustra anche il fatto che, come previsto da diversi esperti, il fenomeno non può sparire fino a quando le condizioni che ne hanno permesso la nascita non saranno eliminate.
È sicuramente il caso della Siria, dove il regime di Bashar al Assad ha conservato il potere nel sangue, in un paese devastato dalla guerra dove più di metà della popolazione è sfollata internamente o si è rifugiata all’estero. Se le cause non cambiano, non cambiano neanche gli effetti.
Il nodo curdo
Non è il caso delle aree controllate dai curdi. Dopo la caduta del califfato dell’Is, Donald Trump aveva deciso di ritirare i soldati statunitensi presenti in appoggio ai curdi. All’ultimo momento Washington ha deciso di mantenere un contingente ridotto che ha permesso di evitare che le enclave cadessero nelle mani del regime.
Ma l’aspetto nascosto di questa situazione è che gli occidentali, a cominciare dalla Francia, hanno delegato ai curdi la detenzione dei jihadisti provenienti dai loro paesi. Quasi un migliaio di francesi (circa 600 uomini, un centinaio di donne e 250 cinquanta minori, di cui alcuni appena dodicenni) si trovano nei campi di detenzione curdi.
Quando i combattimenti sono ripresi, l’Unicef ha chiesto la liberazione di 850 minori detenuti, ricordando che hanno diritto a procedure di giustizia riparativa. L’organizzazione dell’Onu che si occupa dell’infanzia invita in particolare i governi stranieri a organizzare il rimpatrio delle donne e dei bambini che si trovano in un inferno che sta nuovamente prendendo fuoco.
Da un punto di vista sia securitario sia umanitario il ritorno in patria di queste persone appare necessario, nel quadro delle leggi correnti. Il problema è che il tema è considerato politicamente esplosivo in Francia, dunque è stato messo da parte. Questi bambini che non hanno chiesto nulla a nessuno, sono i dimenticati di una guerra che non è mai finita.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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