Davvero Israele può condurre la sua guerra nella Striscia di Gaza senza preoccuparsi dell’opinione degli alleati? Dalla ripresa delle ostilità nel territorio palestinese, l’1 dicembre, sono emerse forti divergenze tra lo stato ebraico e gli Stati Uniti (e, in subordine, la Francia).
Evidentemente il disaccordo con Washington è quello che ha le conseguenze maggiori. Gli Stati Uniti hanno un ruolo operativo nel conflitto, in quanto mandano armi a Israele e soprattutto mantengono un considerevole dispositivo militare che finora ha scongiurato l’estensione regionale dello scontro.
Nel fine settimana il segretario alla difesa Lloyd Austin e la vicepresidente Kamala Harris hanno espresso forti riserve sul modo in cui Israele sta portando avanti le proprie operazioni, chiamando in causa gli attacchi aerei massicci su zone densamente popolate, responsabili di un gran numero di vittime civili.
Le critiche sono tanto più significative se consideriamo che il segretario di stato Anthony Blinken si trovava in Israele alla vigilia della ripresa dei combattimenti e aveva invitato Benjamin Netanyahu a cambiare strategia per proteggere i civili. Israele ha scelto di non dare ascolto all’alleato americano: uno schiaffo diplomatico.
Ci sono diverse ragioni per questa tensione, ma la prima è sicuramente la rabbia persistente in Israele, non solo a causa del massacro del 7 ottobre ma anche del modo in cui Hamas ha gestito la questione degli ostaggi, giocando con le emozioni delle famiglie.
Israele vuole ritrovare una forza di dissuasione nei confronti di Hamas e ritiene che, colpendo con forza inaudita, riuscirà a ristabilire il rapporto di forze psicologico andato in frantumi il 7 ottobre. Ma questa strategia passa attraverso i bombardamenti a tappeto a cui abbiamo assistito nella prima fase della guerra, ora riproposti nel sud. Dunque a pagare sono i civili.
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“La risposta sproporzionata è un elemento essenziale della cultura strategica di Israele”, scriveva già nel 2009 il ricercatore francese Samy Cohen in un libro dedicato all’esercito israeliano (Tsahal à l’épreuve du terrorisme, edizioni Seuil). È proprio questa sproporzione, questa punizione collettiva, ad attirare le critiche più severe da parte degli alleati di Israele.
Gli americani chiedono un approccio diverso, ma non precisano cosa intendano fare nel caso in cui Israele dovesse ignorare i loro consigli. Stando a quello che dicono i leader israeliani, la nuova fase della guerra nel sud (dove i vertici di Hamas sono inseriti in un tessuto urbano molto denso) potrebbe durare ancora diversi mesi.
Ma Washington ritiene che senza un cambio di strategia Israele potrebbe non avere mesi di tempo, perché le opinioni pubbliche non lo accetterebbero. In un discorso pronunciato il 2 dicembre, il segretario alla difesa Lloyd Austin ha persino lasciato intendere che Israele, attaccando i civili, si stia condannando a una sconfitta politica.
Lo stesso messaggio è stato lanciato da Dubai dal presidente francese Emmanuel Macron, sempre nella giornata del 2 dicembre. Macron ha chiesto a Israele di precisare meglio i propri obiettivi di guerra, ipotizzando che prima di debellare Hamas potrebbero “passare dieci anni”. Dopo il 7 ottobre Macron aveva espresso chiaramente il suo appoggio a Israele, ma oggi sta prendendo le distanze dalla strategia dei vertici dello stato ebraico.
Israele sicuramente rispedirà al mittente le critiche francesi, d’altronde Netanyahu ci è abituato. Ma non può ignorare le rimostranze dell’alleato americano, a meno di non voler restare solo ad affrontare il resto del mondo. Gli israeliani hanno sicuramente molto su cui riflettere…
Traduzione di Andrea Sparacino
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