Oggi esiste un mistero cinese. La Cina è diventata la seconda potenza militare ed economica del mondo, presente in tutti i continenti e in possesso della più grande rete diplomatica del pianeta. Eppure tace – o non si sente, che è la stessa cosa – sulle grandi crisi internazionali del momento.
Pechino non interviene sulle minacce nucleari di Vladimir Putin, mentre in passato lo aveva invitato a non ventilare un possibile ricorso all’arma suprema. L’anno scorso, inoltre, la Cina ha ignorato le richieste di Emmanuel Macron di fare pressione sull’amico russo per mettere fine alla guerra in Ucraina, preoccupandosi allo stesso tempo di non lasciarsi trascinare troppo nel conflitto.
Lo stesso silenzio, al di là delle dichiarazioni di rito per corteggiare il sud globale, lo mantiene sulla guerra condotta da Israele a Gaza. Nessun commento anche sui missili lanciati dai ribelli huthi dello Yemen nel mar Rosso, anche se la questione riguarda gli interessi economici cinesi. Le navi minacciate, infatti, sono cariche soprattutto di prodotti realizzati in Cina.
Questo atteggiamento passivo contrasta con lo status di superpotenza che Pechino ha raggiunto negli ultimi anni. La spiegazione del fenomeno è senza dubbio legata alle questioni interne.
La Cina attraversa un periodo difficile. La sua economia ha vissuto un considerevole rallentamento, incapace di decollare dopo la fine delle restrizioni per contenere il covid, più di un anno fa. Crisi immobiliare, allarme per i debiti delle amministrazioni locali, un settore privato marginalizzato, fuga di capitali e talenti, prudenza degli investitori stranieri: tutti questi fattori intaccano la fiducia nazionale e internazionale.
Le due sessioni – la seduta plenaria dell’Assemblea nazionale del popolo e la Conferenza politica consultiva del popolo cinese –, che si sono concluse l’11 marzo a Pechino, non hanno prodotto alcun cambiamento di rilievo. Il primo ministro Li Qiang ha promesso una crescita del 5 per cento nel 2024, esattamente come l’anno scorso, suscitando un certo scetticismo. In ogni caso siamo lontani dal 12 o 13 per cento degli anni duemila. Le conseguenze saranno inevitabili, a cominciare dalla disoccupazione dei giovani laureati.
Ma soprattutto si ha la sensazione che la Cina si stia preparando alla tempesta. Lo dimostra l’ulteriore concentrazione del potere nelle mani del già onnipotente Xi Jinping. La conferenza stampa del primo ministro a chiusura della sessione parlamentare è stata cancellata. Avrebbe dovuto essere l’unica di quest’anno. Un testo adottato durante la sessione, inoltre, rafforza l’autorità del Partito comunista sul governo, ridotto semplicemente a esecutore delle decisioni del comitato centrale. La Cina, insomma, torna a essere uno stato in mano a un partito, dimenticando i dibattiti degli anni duemila sulla separazione dei poteri.
Oggi Xi sembra convinto che le tensioni tra Cina e Stati Uniti continueranno ad aggravarsi. La possibile vittoria di Donald Trump non promette bene. È stato Trump, infatti, a scatenare la guerra commerciale e tecnologica che è stata poi portata avanti da Joe Biden, in un raro caso di consenso trasversale negli Stati Uniti.
Per prepararsi a un possibile scontro, economico o addirittura militare, a Taiwan o nel mar Cinese meridionale, Xi vuole assicurasi che il paese sia allineato. Per questo di recente ha epurato gli alti vertici dell’esercito, ha rafforzato il potere del Partito comunista, che conta quasi cento milioni di iscritti, e ha ordinato alle amministrazioni di perseguire l’autonomia tecnologica invece di usare software stranieri.
Questa Cina chiusa, guidata da un uomo che ha pieni poteri e si prepara al peggio, non è affatto una buona notizia per il mondo. Al contrario, è una fonte di imprevedibilità in più, e dunque di instabilità.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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