Tra due giorni i russi saranno chiamati alle urne in un’elezione presidenziale senza la minima sorpresa, che regalerà a Vladimir Putin altri sei anni alla guida del paese. È in questo contesto particolarmente simbolico, e Putin ama parecchio i simboli, che l’Ucraina ha scelto di colpire in territorio russo.

Non è la prima volta che succede. L’anno scorso un drone ucraino è stato abbattuto addirittura sopra il Cremlino, a Mosca. Ma in questo momento l’Ucraina aveva bisogno di mostrare di avere ancora la capacità di attaccare, nonostante sia ormai in posizione difensiva sul campo di battaglia.

Il 12 marzo i droni ucraini hanno colpito obiettivi russi anche a centinaia di chilometri dal fronte. Mosca ha annunciato di averli abbattuti, ma diversi video girati da cittadini russi mostrano strutture in fiamme, compresa una delle più grandi raffinerie di petrolio del paese, nella regione di Nižnij Novgorod, quattrocento chilometri a nordest della capitale. Allo stesso tempo un gruppo armato di dissidenti russi ha lanciato un attacco di terra nella regione di Belgorod, al confine con l’Ucraina.

L’obiettivo dell’offensiva è prima di tutto psicologico. Gli attacchi, infatti, volevano dimostrare al governo russo che non è l’unico a poter colpire infrastrutture importanti, come sta facendo da due anni. In secondo luogo si tratta di un modo per rispondere ai missili lanciati la settimana scorsa contro il porto di Odessa, uno dei quali a pochi metri dall’auto su cui viaggiavano Volodymyr Zelenskyj e il premier greco Kyriakos Mitsotakis.

Questi attacchi, evidentemente, non hanno lo stesso impatto di quelli russi. Inoltre, sul fronte russo non si registrano vittime civili, contrariamente a quanto successo a Odessa. In questo modo l’Ucraina ha voluto ricordare ai russi che anche loro sono in guerra, una parola che Putin ha evitato durante la campagna elettorale. Kiev ha esitato a lungo rispetto alla possibilità di colpire in territorio russo, spinta dagli alleati occidentali costantemente preoccupati di evitare un’escalation. Ora, però, anche considerando la differenza di mezzi a disposizione dei due eserciti, i dubbi stanno svanendo.

La questione delle armi usate dall’Ucraina contro la Russia è un tema politico importante. In teoria l’esercito ucraino, quando si tratta di attaccare in territorio russo, utilizza solo armamenti di propria produzione, in particolare droni come quelli impiegati il 12 marzo.

Su questo punto gli occidentali per il momento sono categorici: le armi consegnate a Kiev possono essere usate esclusivamente all’interno del territorio ucraino riconosciuto a livello internazionale, che comprende la Crimea e il Donbass occupati dall’esercito russo. Ma non oltre.

È l’accordo che la Francia ha concluso con Zelenskyj per la consegna di missili Scalp, che hanno una gittata di 250 chilometri e dunque possono colpire in Russia. Lo stesso vale per i missili britannici a lungo raggio Storm shadow. È un punto cruciale, che tra l’altro è al centro del dibattito in corso in Germania dopo il rifiuto del cancelliere Olaf Scholz di consegnare a Kiev i missili Taurus, la cui gittata raggiunge i 500 chilometri.

Al di là di queste problematiche, il 12 marzo l’Ucraina ha ottenuto due risultati con un’unica azione, rovinando la festa a Putin e dimostrando agli alleati occidentali che il suo esercito non ha ancora detto l’ultima parola. La risposta della Russia, senza dubbio, sarà impietosa.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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