Rispetto alle decine di migliaia di morti e feriti nella Striscia di Gaza, la morte dei sette operatori umanitari, uccisi da un drone israeliano, potrebbe sembrare poca cosa. Ma la vicenda è importante, perché rivela il tipo di guerra condotta dall’esercito israeliano, in cui i civili sono le prime vittime.
I sette operatori – cittadini britannici, polacchi, australiani e palestinesi, oltre a uno con doppio passaporto canadese-americano – erano a Gaza per conto dell’ong statunitense World central kitchen. La loro operazione era stata concordata con l’esercito israeliano per evitare precisamente ciò che alla fine è successo, ovvero un attacco da parte di un drone nel cuore della notte.
“Sono cose che capitano durante una guerra”, ha commentato il 2 aprile Benjamin Netanyahu. Il primo ministro israeliano ha dichiarato che si è trattato di un incidente e ha promesso che sarà avviata un’inchiesta, ma la sua reazione non è assolutamente all’altezza della situazione e dell’ondata emotiva internazionale.
“Inaccettabile”, ha commentato David Cameron, capo della diplomazia britannica (tre vittime avevano passaporto britannico). Una reazione simile l’hanno avuta anche gli altri paesi coinvolti, Stati Uniti compresi.
Ovviamente il punto non è quello di stabilire se la vita di un operatore umanitario valga più di quella di un abitante della Striscia, ma di concentrarsi su uno degli aspetti più atroci del conflitto: la questione degli aiuti da portare ai due milioni di civili che vivono in condizioni drammatiche in quel territorio. È un tema che in questa guerra è sempre più centrale. Diverse organizzazioni umanitarie hanno parlato di “cibo usato come un’arma”, un’espressione forte che lascia intendere che siano stati commessi crimini di guerra.
Non potendo fermare le ostilità, i paesi stranieri si sono concentrati sugli aiuti, ma si sono scontrati con una serie di ostacoli creati dalle autorità israeliane: una frontiera sostanzialmente chiusa dove i camion carichi di cibo e medicine passano con il contagocce, un’insicurezza generale che ha provocato duecento vittime tra il personale palestinese delle organizzazioni umanitarie e le accuse all’Unrwa, l’organizzazione dell’Onu che si occupa dei palestinesi. Il risultato è che gli aiuti non arrivano, o comunque non arrivano a sufficienza.
La vicenda del 1 aprile peggiora questa situazione. Il 2 aprile diverse ong hanno sospeso la loro attività a Gaza per tre giorni in segno di solidarietà con le sette vittime e per protestare contro la mancanza di sicurezza. Una nave diretta a Gaza che trasportava aiuti umanitari ha fatto rotta verso Cipro, ritenendo che la sicurezza dell’operazione non poteva essere garantita.
Tutto questo pesa ulteriormente sulle condizioni della popolazione palestinese, in particolare nel nord della Striscia, dove cresce il rischio di una carestia devastante.
Il governo Netanyahu è indifferente alle critiche sugli aiuti e alla rabbia internazionale suscitata dai metodi adottati dallo stato ebraico. Tel Aviv si concentra esclusivamente sulla battaglia contro Hamas, anche a condizione d’imporre una punizione collettiva ai civili di Gaza.
Forse è il caso di ricordare ancora una volta che il Consiglio di sicurezza dell’Onu, dieci giorni fa, ha votato per un cessate il fuoco immediato. Sarebbe il momento di applicarlo, prima che si verifichino altre tragedie, volontarie o meno.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
◆ Dal 31 marzo 2024, per almeno quattro giorni, migliaia di israeliani hanno protestato a Tel Aviv e a Gerusalemme, davanti al parlamento e alla casa del premier Benjamin Netanyahu, per chiedere le dimissioni del governo, le elezioni anticipate e un accordo “immediato” per la liberazione dei 134 ostaggi nelle mani dei miliziani di Hamas dal 7 ottobre 2023. Dopo essere scesi in piazza ogni sabato, i manifestanti si sono uniti alle famiglie degli ostaggi per esprimere il loro scontento verso le scelte dell’esecutivo. Il 2 aprile la polizia ha disperso i manifestanti con la forza e ha arrestato cinque persone. Haaretz
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