Da dicembre Joe Biden critica il fatto che la risposta israeliana all’attacco di Hamas del 7 ottobre sta facendo troppe vittime civili palestinesi, ma finora aveva continuato a consegnare armi che permettono a Israele di portare avanti la sua offensiva senza cambiare strategia.
Ora, per la prima volta, il presidente statunitense ha deciso di agire, anche solo per non dare l’impressione che Benjamin Netanyahu lo stia strumentalizzando. Biden ha bloccato l’invio di 3.500 bombe in Israele e ha dichiarato che non intende consegnare nuove munizioni fino a quando l’esercito israeliano proseguirà la sua discussa operazione nella città sovraffollata di Rafah. La Casa Bianca ha ammesso che alcune munizioni statunitensi sono state utilizzate per uccidere civili a Gaza.
Questa svolta da parte di Washington solleva diversi interrogativi. Prima di tutto perché all’inizio della settimana l’esercito israeliano è passato all’azione a Rafah, ordinando a una parte della popolazione di evacuare la città. E così il 9 maggio più di centomila persone hanno ripreso il cammino verso l’ignoto, visto lo stato della Striscia di Gaza dopo sette mesi di bombardamenti. Nel frattempo i carri armati israeliani si sono piazzati alle frontiera con l’Egitto.
La questione è essenzialmente politica. Netanyahu è davvero pronto a sfidare Biden lanciando l’attacco su cui si sono detti contrari tutti i suoi alleati? Il primo ministro israeliano deve tenere conto di diversi aspetti: da un lato una crisi con il suo principale sostenitore, che negli ultimi settant’anni ha consegnato a Tel Aviv più armi che a qualsiasi altro paese del mondo; dall’altro una rinuncia che lo indebolirebbe sul fronte interno nei confronti dei partiti di estrema destra, che già parlano di un rischio di “tradimento”.
A complicare la situazione c’è il fatto che il gabinetto di guerra, di cui fanno parte gli avversari politici di Netanyahu, come l’ex capo di stato maggiore Benny Gantz, si è pronunciato contro l’offensiva a Rafah.
Lo sviluppo di questa crisi dipende in parte dal risultato dei negoziati su un cessate il fuoco a Gaza, che coinvolgono anche il capo della Cia Bill Burns. Hamas ha accettato una proposta all’inizio della settimana, ma questo non significa che sia stato raggiunto un accordo valido per tutti.
Un cessate il fuoco permetterebbe di ridurre la tensione con gli Stati Uniti e di rispondere alle richieste di parte della società israeliana che vorrebbe dare la priorità alla liberazione degli ostaggi.
Il problema è che una tregua non segnerebbe comunque la fine della guerra. La questione israelo-palestinese, di sicuro, resterebbe irrisolta. Domenica scorsa, in occasione della giornata di commemorazione della Shoah, Netanyahu ha pronunciato una frase che oggi assume un senso diverso: “Se dovremo difenderci da soli, ci difenderemo da soli”.
Ancora non siamo arrivati a questo punto. Biden non intende abbandonare Israele, tutt’altro. Il presidente statunitense cerca di farsi ascoltare da un primo ministro pronto ad andare fino in fondo con un atteggiamento che secondo gli alleati di Israele – di cui Biden fa sicuramente parte – è più dannoso che altro per lo stato ebraico. Questo psicodramma ha la sua importanza, perché avrà un ruolo sull’evoluzione della tragedia in corso ormai da sette mesi.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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