È prima di tutto un simbolo. Gibuti, un ex territorio colonizzato dalla Francia nel Corno d’Africa, di fronte alla penisola arabica, ospita l’ultima base militare francese nel continente, la più grande fuori dall’Europa. La base è sopravvissuta alla decisione di molti paesi africani di mettere fine alla presenza militare francese sul loro territorio e anche alla revisione in corso delle strutture militari francesi.
Il motivo è semplice: Gibuti guarda al mare, all’oceano Indiano, al mar Rosso e al Medio Oriente con i suoi conflitti, a cominciare dalle minacce per la navigazione. Il porto di Gibuti, tra l’altro, ha fatto della presenza militare straniera un modello economico. Accanto ai soldati francesi ci sono quelli statunitensi, cinesi, italiani, giapponesi. È una coabitazione strana, ma che garantisce benefici a tutti.
Il presidente francese Emmanuel Macron è atteso nell’unica base francese che resta uguale mentre tutto il resto cambia, ma non c’è molto da rallegrarsi: la presenza francese sul continente ha subìto un duro colpo e l’apertura al resto dell’Africa non basta a compensare la perdita. Il 2024 passerà alla storia come l’anno del colpo di grazia e della fine di un capitolo durato sei decenni.
La rete delle basi militari francesi è un’eredità della storia. Nessun’altra potenza coloniale ha mantenuto legami così stretti con gli ex possedimenti, grazie a un sistema creato all’inizio degli anni sessanta dal generale Charles de Gaulle e dal suo cosiddetto Monsieur Afrique, Jacques Foccart. Per molto tempo le basi hanno rappresentato una sorta di “assicurazione sulla vita” per i regimi africani amici della Francia.
A partire dal 2014, con l’avanzata jihadista nel Sahel, le forze francesi si sono ampliate, ma senza contrastare efficacemente i gruppi armati che seminavano il terrore. Accolti come liberatori in Mali, i soldati francesi sono progressivamente diventati il simbolo di una presenza neocoloniale troppo pesante, soprattutto agli occhi dei giovani.
Il paradosso è che Macron, appena eletto presidente, sembrava consapevole della necessità di cambiare le cose, come aveva annunciato in un discorso pronunciato a Ouagadougou, in Burkina Faso, nel 2017. Ma alla fine il presidente francese non ha saputo agire tempestivamente e ha subìto gli eventi invece di controllarli.
In passato i simboli dell’influenza francese in Africa erano l’esercito e il franco cfa, la moneta comune delle ex colonie francesi. L’esercito è quasi del tutto sparito, in un processo brusco. Lo dimostra il fatto che un rapporto sulle modifiche del dispiegamento militare che era richiesto dal governo a un ex ministro è diventato obsoleto prima ancora di essere letto.
Resta il franco cfa, che nel corso degli anni è cambiato, ma è ancora un simbolo di dipendenza, anche se non ha mai impedito ai paesi africani d’intrattenere relazioni più strette con la Cina che con la Francia.
Ricostruire un rapporto tra la Francia e l’Africa dovrebbe essere una priorità per Parigi, a condizione di mettere a punto nuovi strumenti e creare rapporti più egualitari. Il problema è che oggi non sembrano esserci né la lungimiranza né la volontà di farlo.
Intanto le tracce francesi si fanno sempre più labili. A Bamako la giunta militare ha appena cambiato il nome di rue Ruault, dedicata a un ex funzionario coloniale, ribattezzandola in onore di Sékou Touré, primo presidente della Guinea, l’uomo che disse “no” al generale Charles de Gaulle nel 1958. Un simbolo che ne cancella un altro.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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