Un’ascesa inarrestabile, dagli anni settanta del secolo scorso ai primi anni del duemila. Poi, per la prima volta, uno stop, negli anni più duri della crisi economica che, tra le altre cose, ha messo un freno anche a separazioni e divorzi. Ma gli ultimi dati dei tribunali italiani parlano, per il 2013, di una nuova ondata di crisi familiari, che ha riportato le separazioni sopra quota centomila e i divorzi quasi a quota sessantamila.
I dati sulle separazioni sono quelli più indicati per segnalare le tendenze, visto che fino a oggi al divorzio si poteva accedere solo tre anni dopo aver ottenuto la separazione. E ci dicono che, nel 2013, sono arrivate all’iscrizione nel registro dei tribunali 103.184 separazioni, tra consensuali e giudiziali: un po’ più della metà dei matrimoni celebrati nello stesso anno, scesi per la prima volta sotto quota duecentomila.
Si potrebbe dire che per ogni due coppie che si sposano, un’altra scoppia. Motivo di più per abbreviare un procedimento che, fino alla legge in discussione oggi, prevedeva tempi lunghissimi: infatti ai tre anni di attesa tra separazione e divorzio andavano aggiunti i tempi della giustizia. A loro volta interminabili: 459 giorni la durata media di un procedimento che si chiudeva in tribunale, 1.035 se si arrivava alla corte d’appello. Un’eternità, e anche una spesa che in molti non potevano permettersi: secondo le stime dell’Aduc, un divorzio consensuale costa sui 3.300 euro, uno giudiziale può arrivare a 23mila.
Più che incentivare ripensamenti e tentativi di riconciliazione – le statistiche in proposito dicono che non più dell’1-2 per cento dei separati ci ripensa durante i lunghi anni della lunga attesa prima di riottenere lo stato libero – tutto ciò ha appesantito ulteriormente la condizione delle famiglie in crisi. Soprattutto di quelle più povere. In molti hanno attribuito il calo delle separazioni e dei divorzi che si è registrato dal 2009 al 2012 proprio alle difficoltà economiche, che hanno reso più pesante non solo pagare avvocati e spese del procedimento (e hanno spinto sempre più persone a evitare liti e tentare la separazione consensuale, invece di quella giudiziale), ma soprattutto trovare accordi sul mantenimento e permettere a tutti e due gli ex coniugi un dignitoso tenore di vita anche dopo la separazione.
Con il passare del tempo, e l’acuirsi della crisi, divorziare è diventato sempre più un lusso. E la condizione di coniuge separato – soprattutto in presenza di figli – è ormai un topos della nuova povertà, benché non sia una figura riconosciuta o assistita, a parte alcuni comuni che hanno creato case di accoglienza per padri separati. Non solo: sempre più spesso arrivano in tribunale richieste di rivedere le condizioni del mantenimento, perché il reddito di chi doveva staccare l’assegno mensile si è ridotto – o non c’è più. Cassa integrazione, disoccupazione, crisi industriali sono diventate materia anche di tribunali di famiglia. A Milano nell’anno peggiore della crisi, il 2012, ci sono state 495 richieste di riduzione degli assegni di mantenimento: un incremento dell’8 per cento rispetto all’anno precedente.
Il divorzio breve non potrà rimediare a tutte le difficoltà economiche, spesso drammatiche, portate dalla separazione, ma almeno eviterà di aumentarle con il peso dei costi burocratici e dell’incertezza prolungata. Dando un colpo – si prevede – a un settore economico che nel suo piccolo stava fiorendo, ossia il business dei divorzi all’estero (consentiti in ambito europeo da un regolamento del 2003) in paesi dalle procedure rapide come la Spagna o la Romania, in tempi rapidi (anche solo un week end, secondo le promesse della pubblicità di alcuni studi legali) e a prezzi modici (tre-quattromila euro).
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