L’attacco di Hamas contro Israele deve essere condannato in modo incondizionato, senza se e senza ma. Se si pensa all’uccisione di 260 tra i ragazzi e le ragazze che partecipavano a un rave, si capisce che non si è trattato di un atto di “guerra” ma di un massacro; e che l’obiettivo di Hamas, la distruzione dello stato di Israele, comprende l’assassinio di massa di civili israeliani. Allo stesso tempo è urgente collocare questo attacco nel suo contesto storico, non per giustificarlo ma per chiarire come ci si è arrivati.
Il titolo di un recente dialogo sull’antisemitismo e il movimento Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (Bds) sul settimanale tedesco Der Spiegel era: “Wer Antisemit ist, bestimmt der Jude und nicht der potenzielle Antisemit” (“Sono gli ebrei a stabilire chi è antisemita, non il potenziale antisemita”). Sembra logico che sia la vittima a decidere se è davvero una vittima. Ma non vale lo stesso anche per i palestinesi, che dovrebbero essere in grado di determinare chi ruba la loro terra e li priva dei loro diritti elementari?
Per avere un’idea della disperazione dei palestinesi della Cisgiordania, basti ricordare l’ondata di attacchi suicidi nelle strade (per lo più) di Gerusalemme una decina di anni fa: un palestinese si avvicinava a un israeliano ebreo e lo aggrediva con un coltello, ben sapendo che sarebbe stato immediatamente ucciso da altre persone intorno a lui.
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Non c’era nessun messaggio in quegli atti “terroristici”, nessuna incitazione alla “Palestina libera!”; non c’era nessuna grande organizzazione dietro quegli attacchi (lo dicevano gli stessi servizi di sicurezza israeliani), nessun grande progetto politico, solo pura disperazione. In quel periodo mi trovavo a Gerusalemme e i miei amici israeliani mi misero in guardia da questo tipo di attacchi, consigliandomi che, se lo avessi visto arrivare, avrei dovuto gridare “io non sono un ebreo!”. Ricordo chiaramente di aver pensato che mi sarei vergognato profondamente a comportarmi così, non ero sicuro di cosa avrei fatto davvero in una situazione del genere.
Così, quando sui giornali leggiamo titoli come “Questo è un incubo per Israele e il suo popolo” o “È l’11 settembre di Israele: il terrore inimmaginabile colpisce il cuore della nazione”, viene da pensare: è vero, ma i palestinesi della Cisgiordania vivono in un incubo da decenni.
Il governo di estrema destra
Da quando si è insediato il nuovo governo Netanyahu le cose hanno preso una brutta piega: in una trasmissione televisiva del 25 agosto 2023 Itamar Ben Gvir, ministro della sicurezza nazionale, ha dichiarato: “Il mio diritto, il diritto di mia moglie, il diritto dei miei figli di circolare liberamente sulle strade della Giudea e della Samaria (cioè in Cisgiordania) è più importante di quello degli arabi”. Poi, rivolgendosi a Mohammad Magadli, l’unico arabo presente, Ben Gvir ha detto: “Mi dispiace Mohammad, ma questa è la realtà”. In breve, la violenza contro i palestinesi non è più nemmeno formalmente condannata dallo stato. Il destino di Ben-Gvir è il più chiaro indicatore di questo cambiamento.
Prima di entrare in politica, Ben-Gvir era noto per avere nel suo salotto un ritratto del terrorista israelo-statunitense Baruch Goldstein, che nel 1994 massacrò ventinove fedeli palestinesi musulmani e ne ferì altri 125 a Hebron. Ha cominciato a fare politica unendosi al movimento giovanile dei partiti Kach e Kahane Chai, che sono stati considerati organizzazioni terroristiche e messi fuori legge dallo stesso governo israeliano.
A 18 anni non ha potuto arruolarsi nelle forze armate israeliane per via dei suoi trascorsi nell’estrema destra. Una persona considerata razzista e terrorista dal suo paese ora dovrebbe salvaguardare lo stato di diritto. Lo stato di Israele, che ama presentarsi come l’unica democrazia del Medio Oriente, si è trasformato di fatto in uno stato teocratico (con l’equivalente della legge islamica della sharia). Shlomo Ben-Ami, diplomatico e storico israeliano ha scritto: “Escludendo qualsiasi processo politico in Palestina e affermando con forza, nelle linee guida vincolanti del suo governo, che ‘il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e inalienabile a tutte le parti della Terra d’Israele’, il governo fanatico di Netanyahu ha reso inevitabile un bagno di sangue”.
Qual è stato il ruolo dell’Iran, della Russia e anche della Cina? La guerra di Gaza è il primo momento della terza guerra mondiale?
Esagerazione? Ecco la prima delle linee guida del 37° governo di Israele: “Il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e inalienabile a tutte le parti della Terra d’Israele. Il governo promuoverà e svilupperà gli insediamenti in tutte le parti della Terra d’Israele, in Galilea, nel Negev, nel Golan e in Giudea e Samaria”. Come si può, stabilito un simile “principio”, rimproverare ai palestinesi di rifiutarsi di negoziare con Israele? Questo “principio” non esclude qualsiasi negoziato serio? Non lascia ai palestinesi solo la resistenza violenta?
Se tendessi di più a credere alle teorie complottiste, esprimerei sicuramente il mio dubbio sul fatto, molto pubblicizzato, che i servizi segreti israeliani non sapessero davvero niente dell’attacco del 7 ottobre. Trovo falsa la sorpresa del “come è potuto passare inosservato”. Non è vero che Gaza era totalmente sotto il controllo di Israele, con tanti informatori e sofisticati sensori terrestri e aerei al confine? Forse bisognerebbe sollevare una questione: chi ha tratto maggior profitto dall’attacco di Hamas?
Per dirla in modo un po’ stalinista, l’attacco di Hamas fa oggettivamente l’interesse degli integralisti israeliani che ora governano lo stato (per non parlare dell’interesse della Russia: la guerra ha già distolto l’attenzione globale dalla guerra in Ucraina). Tuttavia, anche se Netanyahu sapeva che Hamas stava preparando qualcosa, non avrebbe potuto prevedere il numero di israeliani uccisi, quindi l’attacco di Hamas potrebbe anche significare la fine di Netanyahu, che non può più presentarsi come “mister Sicurezza”. Non sappiamo cosa è successo davvero: qual è stato il ruolo dell’Iran, della Russia e anche della Cina? La guerra di Gaza è la prima fase della terza guerra mondiale? Una cosa è certa: questa guerra è una catastrofe dalle conseguenze storiche.
Confusione di massa
Tuttavia, invece di perdersi in teorie complottiste, dovrebbe essere sufficiente sottolineare che entrambe le parti (Hamas e il governo Netanyahu) sono contrarie a qualsiasi opzione di pace e invocano la lotta fino alla morte. L’attacco di Hamas va letto sullo sfondo del grande conflitto che ha diviso Israele negli ultimi mesi. Commentando le recenti misure proposte dal governo Netanyahu, lo storico Yuval Harari ha scritto: “Questo è sicuramente un colpo di stato. Israele si avvia a diventare una dittatura”. Israele si è diviso tra i fondamentalisti nazionalisti che cercano di abolire le caratteristiche residue del potere statale legale e gli attivisti della società civile consapevoli di questa minaccia ma ancora timorosi di proporre un patto con i palestinesi non antisemiti.
La situazione si avvicinava alla guerra civile tra gli stessi ebrei israeliani, con segni di indebolimento dello stato di diritto. Dopo l’attacco di Hamas la crisi è (almeno temporaneamente) superata e prevale lo spirito di unità nazionale: l’opposizione ha immediatamente proposto di formare un governo di emergenza. Ha detto il leader dell’opposizione Yair Lapid: “Non mi occuperò della questione di chi sia la colpa e del perché siamo stati sorpresi. Affronteremo uniti il nostro nemico”. Ci sono state altre prese di posizione simili: i riservisti che prima si erano astenuti dal servizio in opposizione alla riforma della giustizia e al rischio della fine della separazione dei poteri ora si sono riarruolati.
In una classica mossa politica, la spaccatura interna viene superata quando entrambe le parti sono unite contro un nemico esterno. Come uscire da questo dannato circolo vizioso? L’ex premier israeliano Ehud Olmert è stato una voce fuori dal coro: sì, Israele dovrebbe combattere Hamas, ma dovrebbe anche usare questa situazione per tendere una mano ai palestinesi pronti a negoziare, poiché ciò che si cela sullo sfondo della guerra è l’irrisolta questione palestinese. E ci sono sicuramente palestinesi non antisemiti.
Il 10 settembre 2023 un gruppo di più di cento professori universitari e intellettuali palestinesi ha firmato una lettera aperta per condannare i “commenti moralmente e politicamente riprovevoli” fatti di recente dal presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen sull’olocausto e sulle origini degli ebrei ashkenaziti: “Radicato in una teoria razzista diffusa nella cultura e nella scienza europea dell’epoca, il genocidio nazista del popolo ebraico è nato dall’antisemitismo, dal fascismo e dal razzismo. Respingiamo categoricamente qualsiasi tentativo di sminuire, travisare o giustificare l’antisemitismo, i crimini nazisti contro l’umanità o il revisionismo storico nei confronti dell’olocausto”.
Cosa potrebbe fare l’Europa, dunque, a parte punzecchiarsi per non aver dato sufficiente sostegno all’una o all’altra parte nella guerra in corso? Non tutti gli israeliani sono fanatici nazionalisti, non tutti i palestinesi sono antisemiti (allo stesso modo in cui non tutti i russi sono putiniani). Forse la prima cosa da fare è riconoscere chiaramente la disperazione e la confusione di massa che possono dare vita a ricorrenti atti di malvagità.
E il passo successivo è vedere la strana somiglianza tra i palestinesi a cui viene negato l’unico luogo che hanno sempre conosciuto come patria e gli stessi ebrei. Questa somiglianza vale anche per il termine “terrorismo”: negli anni della lotta ebraica contro l’esercito britannico in Palestina, il termine “terrorista” aveva una connotazione positiva. Alla fine degli anni quaranta i giornali statunitensi pubblicarono un annuncio con il titolo “Lettera ai terroristi della Palestina”, contenente queste frasi: “Amici coraggiosi. Potreste non credere a ciò che vi scrivo, perché in questo momento c’è molto fertilizzante nell’aria. Gli ebrei d’America sono per voi”. Questo testo è stato scritto nientemeno che da Ben Hecht, celebre sceneggiatore di Hollywood.
Due facce della stessa medaglia
Sotto tutte le polemiche su “chi è più terrorista” si nasconde, come una pesante nube scura, la massa di arabi palestinesi che da decenni è tenuta in un limbo. Chi sono, qual è la terra in cui vivono? Territorio occupato, Cisgiordania, Giudea e Samaria o stato di Palestina, attualmente riconosciuto da 139 dei 193 Stati membri delle Nazioni Unite? Un’entità riconosciuta dal Comitato olimpico internazionale, dell’Unesco, dalla Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo e dalla Corte penale internazionale.
Nel 2011 i palestinesi hanno provato senza successo a ottenere lo status di paese membro a tutti gli effetti delle Nazioni Unite, e nel 2012 l’Assemblea generale ha votato per riconoscere la Palestina come stato osservatore non membro. Israele (che controlla il loro territorio) li tratta come residenti temporanei, come un ostacolo alla ricostituzione dello stato “normale”, con gli ebrei come unici veri nativi. Sono trattati rigorosamente come un problema, lo stato d’Israele non gli ha mai offerto nessuna speranza né un modo per avere un ruolo nello stato in cui vivono. Una decina di anni fa circolò perfino l’idea oscena di dare mezzo milione di dollari a ogni palestinese della Cisgiordania che avesse deciso di lasciare il paese.
Hamas e gli integralisti israeliani sono le due facce della stessa medaglia: la vera scelta non è tra loro, ma tra i fondamentalisti della linea dura e quelli aperti alla coesistenza da entrambe le parti. Anche in questo caso bisogna opporsi al doppio ricatto: se si è sostenitori della causa palestinese si è implicitamente antisemiti, e se si è contro l’antisemitismo si deve implicitamente essere sostenitori di Israele. La soluzione non è un compromesso, una “giusta misura” tra i due estremi: si dovrebbe invece andare fino in fondo in entrambe le direzioni, nella difesa dei diritti dei palestinesi e nella lotta all’antisemitismo.
Per quanto possa sembrare utopistico, le due lotte sono due momenti della stessa lotta (soprattutto oggi che imperversano i sionisti antisemiti, persone velatamente antisemite che sostengono l’espansione di Israele, dal terrorista norvegese Anders Breivik ai fondamentalisti religiosi statunitensi). Quindi sostengo incondizionatamente il diritto di Israele a difendersi da questi attacchi terroristici, ma allo stesso tempo simpatizzo incondizionatamente con il destino disperato e sempre più senza speranza dei palestinesi nei territori occupati. Le persone convinte che ci sia una “contraddizione” in questa mia posizione sono quelle che effettivamente rappresentano una minaccia alla nostra dignità e libertà.
(Traduzione di Davide Lerner)
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