“Possiamo pubblicare il tuo vero nome?”.
“Sì, dovete. È tutto quello che ho”.
Li Xue ci dà appuntamento al ristorante dove da un po’ di tempo lavora in nero come cameriera. “Andiamo fuori, non voglio che le mie colleghe ci sentano, loro non sanno nulla, non capirebbero”. Ci sediamo all’aperto, non c’è nessuno. In questo pomeriggio di inizio novembre l’aria di Pechino è particolarmente inquinata, e comincia a fare freddo. Ci scaldiamo le mani con una tazza di acqua calda. “Da quando ho cominciato a lavorare, ho una vita normale. Esco di casa al mattino e torno la sera. E qualche volta accompagno le mie colleghe a fare shopping. Però la metro evito di prenderla, e quando vedo passare la polizia non sono mai tranquilla”.
Avevamo incontrato Li per la prima volta nell’aprile del 2014 a casa sua, una baracca in fondo a un vicolo cieco in un quartiere non lontano da piazza Tian’anmen. Allora condivideva una stanza con i genitori: un letto matrimoniale, un lavandino e un angolo cottura. Nessun mobile. “Non ho l’hukou (il certificato di residenza), non ho documenti e quindi non sono potuta andare a scuola”, ci aveva spiegato. Li Xue è la seconda di due figlie: è una di quei 13 milioni di cinesi “invisibili” che, essendo nati violando gli schemi della pianificazione familiare imposta fino a oggi dal governo di Pechino, non hanno il certificato di residenza assegnato a ogni cittadino cinese al momento della nascita. Un documento indispensabile per ottenere la carta d’identità, usufruire dei diritti di base come l’istruzione o l’assistenza sanitaria, aprire un conto in banca, lavorare, viaggiare, sposarsi o avere dei figli. È una delle ricadute della politica del figlio unico adottata nel 1979 che adesso la Cina ha deciso di abbandonare per tentare di contrastare la bassa natalità e il rapido invecchiamento della popolazione.
Non uno di più
Li Xue è nata nell’agosto del 1993 in un ospedale di Pechino, poco lontano dal Tempio del Cielo, ma ufficialmente non esiste. Prima che nascesse, entrambi i suoi genitori lavoravano: il padre in un cotonificio, la madre come operaia in una fabbrica. I salari erano modesti, in due arrivavano a malapena a 100 yuan al mese (meno di 15 euro). Difficile tirar su una figlia, figuriamoci due. Ma quando la madre scoprì di essere rimasta incinta per la seconda volta, la gravidanza era già a uno stadio avanzato e, temendo per la sua vita, non se la sentì di abortire. Così decise di infrangere la legge sulla pianificazione familiare, che obbligava le coppie a non avere più di un figlio. Subito dopo il parto perse il lavoro: in Cina allora c’era lavoro per tutti, ma non per chi trasgrediva le leggi. Inoltre, per far assegnare l’hukou a Xue, i suoi avrebbero dovuto pagare una multa di cinquemila yuan: quattro volte le entrate annuali della famiglia, rimasta oltretutto con uno stipendio solo. Era una spesa impensabile. In un modo o nell’altro la questione si sarebbe risolta: la bambina esisteva, e lo stato prima o poi avrebbe dovuto prenderne atto.
Evito di prendere la metro e quando vedo passare la polizia non sono mai tranquilla
“Fino a sei anni ho pensato di essere una bambina come le altre, ma quando i miei coetanei, compresa mia sorella maggiore, hanno cominciato ad andare a scuola mentre io dovevo rimanere a casa, ho capito che qualcosa non andava”, ci racconta. “Nel tempo libero mia sorella mi ha insegnato a leggere e a scrivere, ma non mi bastava. Volevo andare a scuola come tutti gli altri. Così, per protesta, un giorno l’ho scritto su un foglio di carta e l’ho sventolato in piazza Tian’anmen”. A pagarne le conseguenze furono i suoi genitori. Era il 2001, Li Xue aveva sette anni.
Da allora, nei periodi “politicamente sensibili” (in Cina ce ne sono almeno un paio all’anno), la polizia stazionava fuori dalla porta di casa loro. “Durante le Olimpiadi del 2008, avevo 15 anni, i poliziotti mi legarono un piede a uno sgabello. I miei potevano uscire solo accompagnati dagli uomini in divisa. Io no, nemmeno per andare in bagno, dovevo usare una bacinella”. Nel resto dell’anno evitava di uscire per paura che qualcuno le chiedesse i documenti che non aveva. Non sapeva cosa le sarebbe potuto capitare. Sapeva però che doveva trovare una soluzione e cominciò a studiare. “Mia sorella dalla biblioteca mi portava i codici delle leggi e dei regolamenti. E un giorno trovai quello che cercavo: una legge del 1988 stabilisce che il certificato di residenza dev’essere emesso per ogni neonato, anche per quelli ‘illegali’”, spiega prima di leggere ad alta voce, scandendo bene le parole, il testo della legge.
La storia di Li Xue è simile a quella degli altri invisibili. Quello che le era capitato era uneffetto collaterale della politica sul controllo delle nascite. A rovinarle la vita è stato un eccesso di zelo e l’ignoranza dei funzionari locali. Negare l’hukou a un bambino nato illegalmente serviva solo a nascondere il loro fallimento nell’applicazione della legge e a costringere i genitori a pagare la multa (le sanzioni finora sono state un’entrata importante per i bilanci delle amministrazioni locali, che solo nel 2012, ha calcolato un avvocato dello Zhejiang, hanno incassato 17 miliardi di yuan).
Così, nel 2009, Li ha deciso di fare causa allo stato. Non potendo entrare nel palazzo di giustizia, ha aspettato che un giudice uscisse per consegnargli una denuncia scritta di suo pugno contro la questura locale che non aveva emesso il suo hukou. Qualche mese dopo l’hanno chiamata per avvertirla che la corte aveva rifiutato il caso. Ci ha riprovato altre due volte e adesso è in attesa di un verdetto. Se il governo di Pechino ha intenzione di sanare questa situazione lo scopriremo a marzo del 2016, quando a tutte le coppie cinesi sposate sarà permesso avere due figli. Li Xue avrà compiuto 22 anni e, forse, guadagnerà finalmente il diritto di esistere.
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