Sono nato e cresciuto a Petty Harbour, un piccolo villaggio di pescatori sulla costa dell’isola di Terranova, in Canada, una manciata di case dipinte di verde, blu e rosso per aiutare le barche a ritrovare la via di casa nella nebbia. A quattordici anni ho lasciato la scuola e ho cominciato la mia vita in mare. Ho pescato tonni e aragoste nelle acque atlantiche dei Grandi banchi di Terranova, poi mi sono spostato nel mare di Bering per la pesca di merluzzi e granchi.

Il problema era che stavo lavorando negli anni della massima industrializzazione del cibo. Stavamo distruggendo interi ecosistemi con le reti a strascico, inseguendo i pesci sempre più al largo in acque proibite. Io stesso ho ributtato in mare decine di migliaia di chili di catture accidentali.

E il fatto è che non stavamo solo saccheggiando i mari. La maggior parte di quello che pescavo finiva nei sandwich di pesce di McDonald’s. Ero ancora un ragazzino e lavoravo in una delle forme di produzione alimentare meno sostenibili e meno salutari del pianeta. Ma quanto mi piaceva quel lavoro! L’umiltà di trovarsi in mare aperto, il senso di solidarietà che si crea quando sei nel ventre di una barca con tredici altre persone che lavorano a turni di trenta ore, l’orgoglio di contribuire a nutrire il mio paese. Mi mancano molto quei giorni.

Ma poi nei primi anni novanta ci fu il crollo della pesca del merluzzo bianco: migliaia di pescatori rimasti senza lavoro, barche ferme, fabbriche di conserve chiuse. La situazione creò una spaccatura nel settore: i capitani d’industria che volevano pescare fino all’ultimo pesce stavano pensando solo a breve termine, al decennio successivo, ma c’era una generazione più giovane di pescatori come me che guardavano più in là, ai cinquant’anni a venire. Volevamo guadagnarci da vivere in mare. Voglio morire sulla mia barca un giorno, per me è quella la misura del successo.

Immaginate un giardino verticale sottomarino con ancoraggi a prova di uragano e collegato da corde galleggianti lungo tutta la superficie

Così andammo alla ricerca di soluzioni più sostenibili. Mi ritrovai a lavorare in un allevamento di acquacoltura nel nord del Canada. All’epoca l’acquacoltura sembrava la soluzione ideale al problema della pesca eccessiva, ma lavorandoci scoprii che funzionava più o meno allo stesso modo, usando le nuove tecnologie per inquinare con pesticidi i corsi d’acqua locali e pompare di antibiotici i pesci. Ci scherzavamo sopra, dicendo che quello che stavamo allevando non era né carne né pesce. Era l’equivalente in mare degli allevamenti intensivi di suini dello Iowa.

Così ho continuato a cercare e sono finito nel Long Island Sound, un canale naturale nell’oceano Atlantico dove c’era un programma per attirare giovani pescatori dandogli, per la prima volta da 150 anni, le concessioni per le zone di pesca di molluschi. Ho fatto domanda, ho avuto in concessione alcune aree dallo stato di New York e mi sono rifatto una vita come allevatore di ostriche. È stato il mio lavoro per sette anni.

Poi sono arrivati gli uragani Irene e Sandy che hanno devastato la costa orientale degli Stati Uniti. Per due anni consecutivi, le tempeste hanno sepolto sotto tre metri di fango il 90 per cento dei miei raccolti e spazzato via il 40 per cento delle mie attrezzature. Allo stesso tempo, il riscaldamento delle acque stava spingendo a nord le aragoste e il tasso di acidificazione dei mari aumentava ai livelli più alti degli ultimi 300 milioni di anni, uccidendo miliardi di larve di ostriche lungo tutta la costa americana.

Improvvisamente mi sono ritrovato in prima linea in una crisi climatica arrivata cent’anni prima del previsto. Per molti anni avevo considerato il cambiamento climatico solo come un problema ambientale, perché gli ambientalisti lo inquadravano sempre in termini di rischi per gli uccelli, gli orsi, le api. Ma io sono un pescatore. Uccidere specie viventi è il mio mestiere. Sono cresciuto sparando agli alci dalla finestra della cucina. Non avevo mai pensato al cambiamento climatico come a qualcosa che avesse a che fare con la mia vita. Ma è così. Dal mio punto di vista, il cambiamento climatico non è nemmeno una questione ambientale, è una questione economica.

La coltivazione subacquea

Dopo la distruzione del mio primo allevamento, ho capito che avrei dovuto adattarmi, perché mi trovavo di fronte a una grave minaccia alla mia fonte di sostentamento. Così ho cominciato a reinventare il mio mestiere, sperimentando ed esplorando nuove strutture e nuove specie. Ho alzato l’allevamento dal fondo del mare per evitare l’impatto delle onde create dagli uragani e ho aggiunto nuove specie sostenibili. Oggi, dopo 29 anni di lavoro in mare, mi sono reinventato un’attività con la coltivazione subacquea in 3d, facendo crescere un mix di alghe e crostacei per produrre cibo, combustibile, fertilizzante e mangime.

Ed è così che sono arrivato dove sono oggi. Ora diamo un’occhiata alla coltivazione subacquea per vedere come è stata progettata e perché. Immaginate un giardino verticale sottomarino con ancoraggi a prova di uragano e collegato da corde orizzontali galleggianti lungo tutta la superficie. Da queste corde le alghe kelp, gracilaria e di altri tipi crescono verticalmente verso il basso, accanto alle capesante in reti appese che somigliano a lanterne giapponesi e alle cozze tenute in sospensione in reti più sottili simili a calze. Nell’ultimo strato del giardino verticale ci sono le gabbie di ostriche e vongole adagiate sul fondo del mare.

Bren Smith (Medium)

Guardando il mare dalla riva non si vede quasi nulla, il che è una buona cosa. Le nostre coltivazioni subacquee hanno un basso impatto estetico: i nostri oceani sono luoghi bellissimi e incontaminati e vogliamo tenerli così. Sviluppandosi in verticale, la coltura ha un ingombro ridotto. Il mio allevamento precedente aveva una superficie di 40 ettari; ora è sceso a otto, ma produce molto più cibo rispetto a prima. Se siete per il “piccolo è bello”, questo ne è un esempio perfetto. Vogliamo che la coltivazione dei mari abbia un impatto minimo sull’ambiente.

Le nostre coltivazioni sottomarine sono progettate per affrontare tre grandi sfide: portare in tavola una nuova selezione di prodotti di mare in quest’epoca di pesca eccessiva e di insicurezza alimentare; trasformare i pescatori in coltivatori sostenibili dei mari; e infine, porre le basi per un’economia che non presenti le ingiustizie della vecchia economia industriale.

È il momento di mangiare come i pesci

Primo: la produzione alimentare. Come coltivatori del mare, respingiamo l’ossessione dell’acquacoltura tradizionale per la monocoltura, un’ossessione simile a quella della moderna agricoltura. Il nostro obiettivo è la diversità. È un approccio che punta alla produzione di un paniere di prodotti del mare. Oggi coltiviamo due tipi di alghe e quattro tipi di frutti di mare, oltre a raccogliere il sale – ma con oltre diecimila specie di alghe e piante commestibili che crescono nei nostri mari, siamo solo agli inizi. Mangiamo solo poche specie e non ne coltiviamo praticamente nessuna negli Stati Uniti.

Per questo abbiamo intenzione di “desushificare” le alghe e inventare una nuova cucina locale, che non sia basata sul nostro gusto industriale per il salmone e il tonno, ma sulle migliaia di verdure oceaniche ancora da scoprire che si trovano a portata di mano lungo tutte le nostre coste.

Le alghe native contengono più vitamina C del succo d’arancia, più calcio del latte e più proteine ​​della soia. E, per quanto riguarda gli omega-3, potrebbe stupirvi sapere che molti pesci non producono da soli questi nutrienti salutari per il cuore: li consumano. Mangiando le piante che i pesci mangiano, otteniamo gli stessi benefici riducendo al contempo la pressione sulle riserve ittiche. È il momento di mangiare come i pesci.

Stiamo lavorando con i nostri chef per creare piatti come spaghetti di alghe kelp con pastinaca e pangrattato in salsa barbecue; burri e formaggi con verdure di mare; brodi saporiti a base di alga kelp. La nostra nuova cucina di mare è vivace, creativa e gustosa. Questa è la nostra occasione di reinventare i piatti di mare mettendo al centro le piante dell’oceano e i molluschi invece di puntare solo sul pesce pescato. Immaginate di essere uno chef nel 2016 e scoprire che ci sono migliaia di specie vegetali che non avete mai usato per cucinare.

Bren Smith racconta il suo progetto

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È come scoprire il mais, la rucola, i pomodori e la lattuga per la prima volta. Come dice Brooks Headley, uno degli chef con cui lavoriamo (nonché ex batterista punk-rock): “Per un cuoco è qualcosa di sconcertante e stimolante allo stesso tempo”. Le verdure del mare come le alghe kelp non sono piccole colture di nicchia. Possiamo coltivare quantità incredibili di cibo in aree ridotte: 25 tonnellate di alghe e 250mila crostacei in circa mezzo ettaro in cinque mesi. Una rete di colture subacquee delle dimensioni dello stato di Washington potrebbe nutrire l’intero pianeta.

È cibo a input zero: non serve acqua per irrigare, non servono fertilizzanti, mangimi o terreni. È senza dubbio il tipo di alimentazione più sostenibile del pianeta.

Con l’aumento dei prezzi dei fertilizzanti, dell’acqua e dei mangimi, il cibo a input zero diventerà anche il più conveniente. Le motivazioni economiche ci spingeranno a mangiare le verdure del mare. La domanda è: sarà cibo gustoso o sarà come essere costretti a mandar giù l’olio di fegato di merluzzo? Come coltivatori, il nostro lavoro è produrre questa nuova cucina – renderla appetitosa è il lavoro degli chef.

Coltivare il mare non è solo una questione di produzione alimentare. Si tratta di trasformare un’intera forza lavoro: trasformare i pescatori in coltivatori sostenibili per il risanamento delle acque. Il mio lavoro non è mai stato quello di salvare il mare, ma di capire come il mare ci può salvare.

Milioni di anni fa la natura ha creato due tecnologie progettate per ridurre i nostri danni: i molluschi e le alghe marine. Le ostriche filtrano fino a 190 litri di acqua al giorno, mentre l’alga kelp d’allevamento, chiamata la “sequoia del mare”, assorbe cinque volte più anidride carbonica rispetto alle piante terrestri. Le alghe potrebbero essere un’ottima fonte di biocarburanti a input zero; secondo alcuni studi di fattibilità, potremmo produrre quindicimila litri di etanolo per ettaro – una resa decisamente maggiore rispetto ai semi di soia e al mais.

Secondo il dipartimento dell’energia degli Stati Uniti, una rete di coltivazioni subacquee con una superficie pari alla metà dello stato del Maine potrebbe produrre abbastanza biocarburante da sostituire tutto il petrolio usato negli Stati Uniti.

Cavallucci marini, spigole atlantiche e foche grigie vengono a mangiare, nascondersi e proliferare nelle nostre coltivazioni sottomarine

Le nostre colture funzionano come protezione dalle onde di tempesta, rompendo l’azione delle onde per ridurre l’impatto degli uragani e delle maree in aumento. Sono anche delle scogliere artificiali, attirando più di 150 specie acquatiche. Cavallucci marini, spigole atlantiche e foche grigie vengono a mangiare, nascondersi e proliferare nelle nostre coltivazioni sottomarine.

La mia prima fattoria subacquea era un lembo di mare sterile, ora è un ecosistema fiorente. Come pescatori, non siamo più saccheggiatori che inseguono fino all’ultimo pesce. Siamo una nuova generazione di coltivatori sostenibili che si sono uniti alla lotta per risanare il nostro pianeta. Stiamo cercando di abbattere le dighe che separano il nostro sistema alimentare basato sui prodotti del mare da quello basato sui prodotti della terra.

Anche le migliori forme di agricoltura terrestre inquinano, immettendo più azoto nei nostri corsi d’acqua; perciò usiamo le nostre alghe per catturare quell’azoto, trasformarlo in fertilizzanti liquidi e rimandarlo alle coltivazioni di agricoltori biologici per far crescere le loro verdure. Quando altro azoto viene immesso nelle acque del Long Island Sound, lo catturiamo di nuovo.

Stiamo anche lavorando per produrre nuove forme di mangimi per il bestiame. Per esempio, secondo alcune ricerche, l’aggiunta di alghe ai mangimi potrebbe portare a una riduzione fino al 90 per cento delle emissioni di metano causate dai bovini. L’idea è quella di costruire un ponte tra terra e mare per superare la separazione tra i nostri sistemi alimentari. Troppo spesso il nostro modo di pensare si ferma al bordo dell’acqua. Ci serve un ponte per andare oltre.

Salvare i mari non basta

Il nostro obiettivo è costruire le basi per una nuova economia. Salvare i mari non basta. Nella mia città natale la disoccupazione è al 40 per cento. Non farei questa attività se non potesse creare posti di lavoro per la mia gente e aprire nuove opportunità per tutte le persone che dipendono dai nostri oceani per guadagnarsi da vivere.

La nostra vecchia economia sta crollando. In metà degli Stati Uniti non riesco ad avere ricezione per il telefono, per non parlare di assistenza sanitaria decente o di cibo sano. La vecchia economia è costruita sull’arroganza della crescita a ogni costo, sul trarre profitto dall’inquinamento e sul rifiuto di condividere gli utili economici con il 99 per cento degli americani. Ma dalle ceneri della vecchia economia stiamo costruendo qualcosa di nuovo basato sui princìpi della nuova economia: collaborazione, innovazione guidata dalla comunità, profitti condivisi e risposte alle esigenze sociali. Dato che la coltivazione del mare è ancora agli inizi, abbiamo l’opportunità di costruire un modello da zero – costruire dal basso un’economia che funzioni per tutti. Abbiamo l’opportunità di imparare dagli errori dell’agricoltura industriale e dell’acquacoltura tradizionale. Questa è la nostra occasione per ripensare in meglio la produzione del cibo.

Abbiamo affrontato la prima questione di replicare e ampliare le nostre colture sottomarine, non con brevetti o franchising – tutti strumenti della vecchia economia – ma con la condivisione in open source del nostro modello di coltivazione, in modo che chiunque con dieci ettari, una barca e 30mila dollari a disposizione possa avviare la sua azienda agricola in mare. Uno dei nostri nuovi coltivatori è un pescatore di aragoste di terza generazione, rimasto senza lavoro a causa dei cambiamenti climatici che hanno spinto a nord le aragoste.

Lo abbiamo aiutato ad allestire la sua coltivazione, a farla crescere e realizzare vendite dal primo anno. Tra i nostri altri coltivatori ci sono ex pescatori di salmone dell’Alaska, un veterano della guerra in Iraq e una famiglia latinoamericana i cui antenati furono cacciati dai loro terreni agricoli in Messico. Replichiamo e ampliamo il nostro modello progettando colture che richiedono bassi costi di capitale e competenze minime. Cerchiamo la semplicità, non la complessità.

I nostri coltivatori non possiedono il loro pezzo di oceano. Possiedono solo il diritto di allevarci crostacei e coltivarci alghe

Vogliamo facilitare la possibilità di replicare il nostro modello grazie a basse barriere all’entrata, in modo che chiunque possa crescere e prosperare insieme a noi. Allo stesso tempo, i nostri coltivatori ricevono sovvenzioni per l’avvio dell’attività, accesso gratuito alle sementi, attrezzature donate da Patagonia e due anni di consulenza gratuita da GreenWave. Cosa ancora più importante, garantiamo l’acquisto dell’80 per cento dei loro raccolti per i primi cinque anni al triplo del prezzo di produzione.

Intendiamo creare mercati stabili e sicuri che diano ai nostri nuovi coltivatori il tempo di imparare il mestiere e di espandere le loro colture, incentivandoli a continuare con la certezza che saranno pagati bene per quello che producono. Nella nostra visione ci sono centinaia di colture verticali sottomarine di piccole dimensioni che punteggiano le nostre coste, circondate da zone di conservazione. Immaginate l’equivalente della Napa valley, con habitat oceanici lungo tutte le coste degli Stati Uniti.

Immaginiamo anche colture incorporate in parchi eolici, per produrre non solo energia ma anche cibo, combustibile e fertilizzante. Vogliamo usare le centrali a carbone rimaste chiuse – come quella che sta per chiudere a Bridgeport, in Connecticut – per la lavorazione di mangime e sale. Vogliamo riconvertire le industrie dei combustibili fossili e della pesca in modo che possano proteggere i nostri oceani, invece di distruggerli.

Medium

La seconda questione è come costruire le infrastrutture necessarie per garantire che i coltivatori del mare e le comunità locali possano raccogliere i frutti di questa nuova economia. Per troppo tempo, agricoltori e pescatori sono stati intrappolati in un sistema di speculazione nel quale i profitti dei prodotti che vendono sono incassati da altri.

Oggi invece, grazie alle risorse inesplorate dei nostri oceani, possiamo pianificare in anticipo e costruire un’infrastruttura nel modo giusto. Come ha detto uno dei nostri nuovi coltivatori, un pescatore di 65 anni che viene da una famiglia del Rhode Island con alle spalle trecento anni di attività nella pesca: “L’ultima cosa che vogliamo fare con la coltivazione sottomarina è ricreare l’industria della pesca”.

Invece di ripetere il passato, stiamo costruendo un’infrastruttura che va dal seme al raccolto al mercato. Stiamo avviando incubatori non profit per permettere ai nostri coltivatori di accedere ai semi a basso costo. Stiamo creando banche dei semi marini per impedire alle Monsanto del mondo di privatizzare le fonti del nostro cibo e della nostra attività. Abbiamo fissato un limite per il canone di locazione – cinquanta dollari per mezzo etaro all’anno – per garantire l’accesso anche ai coltivatori a basso reddito. Ma non è un sistema basato sulla privatizzazione.

I nostri coltivatori non possiedono il loro pezzo di oceano: possiedono solo il diritto di allevarci crostacei e coltivarci alghe, il che significa che chiunque può andare in barca, pescare, o nuotare nelle acque delle loro colture. Io possiedo il processo di coltivazione, non l’area coltivata, che resta così uno spazio comune condiviso. Stiamo anche integrando più strumenti di controllo comunitario. I contratti di locazione sono oggetto di revisione ogni cinque anni; così se qualcuno coltiva in modo non sostenibile, i suoi diritti potranno essere revocati.

Allo stesso tempo, stiamo costruendo il primo hub per i prodotti del mare che sarà di proprietà dei coltivatori, concepito non solo come luogo per lavorare, confezionare e spedire i prodotti di base che coltiviamo, ma anche come spazio per sfruttare al meglio le qualità uniche delle nostre alghe. Il valore dell’alga kelp va ben oltre il suo uso alimentare. C’è tutta una serie di prodotti che possiamo ricavarne per soddisfare varie esigenze ambientali e sociali: fertilizzanti biologici, nuovi mangimi per il bestiame, biocarburanti e perfino medicine. Con migliaia di piante oceaniche non ancora identificate, gli agricoltori e gli scienziati possono collaborare per scoprire e sviluppare nuovi tipi di medicine.

Un modello senza ingiustizia

Se mettiamo a disposizione delle nostre comunità il giusto mix di infrastrutture a basso costo e in open source, il nostro hub diventerà un motore per creare nuovi posti di lavoro e la base per inventare nuove attività produttive. Sarà anche un motore per un sistema di produzione alimentare più giusto, un luogo in cui inserire nella struttura della coltivazione del mare posti di lavoro di qualità, accesso al cibo e alimentazione.

Per esempio, lavoriamo con iniziative locali come CitySeed a New Haven, nel Connecticut, per garantire che le persone a basso reddito possano usare i buoni pasto per ottenere il doppio del valore presso le pescherie supportate dalla comunità e il nostro punto vendita Beyond Fish. Significa anche utilizzare il nostro hub come centro di collocamento per offrire ai lavoratori locali opportunità di impiego nelle nostre aziende agricole, nelle nostre startup e nelle nostre cucine. Se venite al nostro hub per cercare lavoro, non portate il curriculum. Non ci importa se avete precedenti penali o siete immigrati senza documenti: vogliamo solo farvi lavorare.

La sfida finale è come riorganizzare i rapporti tra chi produce cibo e chi lo compra. Sarebbe un fallimento ricreare le dinamiche di potere della vecchia economia. Così come abbiamo bisogno di riorganizzare la nostra cucina di mare mettendo al centro le verdure marine, abbiamo bisogno di mettere al centro della nostra tavola i coltivatori, i lavoratori del settore alimentare, le comunità e la tutela del pianeta, togliendo spazio alla vecchia economia distruttiva e ingiusta.

Vogliamo mettere coltivatori e acquirenti in condizioni di parità offrendo contratti di compravendita a termine, così i coltivatori potranno essere pagati prima di avviare l’attività e le perdite saranno condivise tra coltivatori e acquirenti se le colture dovessero fallire. È ora che tutti condividiamo il rischio d’impresa sempre crescente dell’attività di coltivare cibo nell’era del cambiamento climatico e della globalizzazione.

Il rapporto tra agricoltori e acquirenti deve andare ancora più in profondità. Reinventare il sistema alimentare sarà un processo costoso e complesso. Non sarà sufficiente usare solo il potere d’acquisto. Le istituzioni di appoggio come ospedali, università, grossisti e dettaglianti hanno un nuovo ruolo, una nuova serie di responsabilità nella nuova economia. Hanno il dovere di investire in modo massiccio nell’attività dei nostri coltivatori, nelle nostre infrastrutture e nelle nostre comunità. Dovranno donare una parte dei loro profitti e delle loro dotazioni allo sviluppo di incubatori, hub di prodotti di mare, sistemi di logistica e trasporto, ricerca e sviluppo.

Ciò significa meno profitti per il settore privato e un tasso di rendimento inferiore per le università, ma anche più valore in termini di benessere sociale e ambientale. La realtà che tutti vediamo intorno a noi dimostra che continuare così come se niente fosse non salverà questo pianeta. È il momento di disinvestire dalla vecchia economia e investire nel nuovo.

L’istinto degli ambientalisti

Vogliamo anche che i mercati premino i vantaggi delle nostre coltivazioni sottomarine. Stiamo lavorando in aree come il Connecticut per includere i coltivatori del mare nei programmi esistenti per lo scambio di emissioni di azoto. Stiamo allestendo nuove colture in aree inquinate come Bridgeport e il fiume Bronx in modo da assorbire l’azoto e il carbonio, estrarre i metalli pesanti e ricostruire le scogliere sottomarine. Invece di produrre solo cibo, queste colture producono servizi ecosistemici. Mentre altri inquinano, noi risaniamo – e come coltivatori dobbiamo essere pagati per le conseguenze positive del nostro lavoro. Nella nuova economia, i mercati devono riflettere i benefici ambientali che forniamo.

Nel 1979 Jacques Cousteau, il padre della conservazione degli oceani, scriveva: “Dobbiamo coltivare il mare e allevare le sue specie animali, usando il mare da agricoltori invece che da cacciatori. In questo consiste lo sviluppo della civiltà – l’agricoltura che sostituisce la caccia”. Questo sogno di Cousteau, che è lo stesso di GreenWave, è spaventoso per alcuni ambientalisti. L’idea di centinaia di coltivazioni sottomarine che punteggiano le nostre coste e di coltivazioni in 3d incorporate nei parchi eolici per molti è sconcertante a causa delle dimensioni.

Di conseguenza, l’istinto degli ambientalisti è fare tutto il possibile per proteggere gli oceani da qualsiasi forma di sviluppo economico. Si fanno scudo con la “politica del no”. Posso capire questi timori, in particolare vista la storia dell’acquacoltura industriale nel decennio del 1980, ma nell’era dei cambiamenti climatici è un’illusione per gli ambientalisti pensare di poter salvare i nostri mari contando solo su una strategia di conservazione e continuando allo stesso tempo a chiedere agli oceani di soddisfare la nostra fame di pesce selvatico.

Per la prima volta da generazioni abbiamo l’opportunità di coltivare il cibo nel modo giusto, creare posti di lavoro di qualità, ripristinare gli ecosistemi e nutrire il pianeta

La conservazione rappresenta una forma particolare di negazione del cambiamento climatico. Tutti sappiamo che i cambiamenti climatici sono una realtà, ma non ne abbiamo ancora compreso in pieno il significato, le implicazioni e l’urgenza. Basta vedere cosa sta succedendo sia sulla terraferma sia nei mari: l’aumento delle temperature dell’acqua e l’acidificazione minacciano una su quattro specie marine in via di estinzione; la siccità e le condizioni climatiche estreme rischiano di far salire il prezzo del mais negli Stati Uniti del 140 per cento nei prossimi 15 anni; l’agricoltura è responsabile di almeno un terzo di tutte le emissioni di carbonio e usa l’80 per cento dell’acqua dolce in alcune zone, il che la rende la causa primaria della siccità, dell’aumento dei prezzi del cibo e dell’insicurezza alimentare.

Se c’è una lezione da trarre dalle guerre dell’acqua del 2015 in California, è che il nostro sistema alimentare verrà spinto sempre di più verso il mare. Sì, abbiamo bisogno di parchi marini, ma potremmo mettere sotto tutela gli oceani di tutto il mondo e i nostri ecosistemi marini morirebbero comunque. La conservazione da sola non è più ambientalismo.

La crisi del clima ci impone di usare i nostri timori come catalizzatori del cambiamento. Per la prima volta da generazioni, abbiamo l’opportunità di coltivare il cibo nel modo giusto, creare posti di lavoro di qualità per le classi medie, ripristinare gli ecosistemi e nutrire il pianeta.

Questo è il nuovo volto dell’ambientalismo. Con la spinta verso il mare del nostro sistema alimentare, possiamo unirci per bloccare la privatizzazione, proteggere i nostri beni comuni e diffondere i semi della giustizia. Possiamo inventare nuove professioni, spostare intere forze lavoro fuori della vecchia economia e verso la nuova economia di risanamento. Questa è la nostra occasione per reclutare un esercito di coltivatori del mare per sviluppare una nuova cucina sostenibile, che sia ricca di bellezza e speranza per un futuro in cui tutti possiamo guadagnarci da vivere su un pianeta vivente.

(Traduzione di Monica Cainarca)

Una versione di questo articolo è stata pubblicata in italiano su Medium Italia e in inglese su Medium.

Internazionale ringrazia per la consulenza il biologo marino Alessandro Lovatelli, aquaculture officer del dipartimento Fisheries and aquaculture della Fao.

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