“Che strano sentire i galli cantare la mattina!”. Angela de Ocampo ha 14 anni ed è figlia di filippini. È in quell’età in cui infanzia e adolescenza si confondono. A tratti sembra più adulta, a tratti più giovane. Parla italiano con un leggero accento milanese e, a sentir lei, lo parla addirittura meglio del tagalog, la lingua dei suoi genitori. È nata a Milano dove ha vissuto fino allo scorso luglio quando, finite le scuole medie, ha deciso di trasferirsi dal padre vicino Lipa, nella campagna tropicale della provincia di Batangas, poco meno di cento chilometri a sud di Manila.

Ora frequenta una scuola privata cattolica che dista pochi chilometri dalla sua nuova casa. Ce la presenta un’amica italiana che la considera una persona di famiglia. La madre di Angela, che è rimasta a lavorare a Milano, fa la governante a casa dei suoi genitori da 15 anni. Si è presa cura di loro. E loro si sono presi cura di sua figlia.

Angela viene a prenderci a Manila e ci porta nella sua terra. Dopo il traffico intenso della capitale e un paio d’ore di autostrada abbastanza sgombra, ci infiliamo nelle strette strade di campagna, tra la vegetazione lussureggiante tipica dei climi tropicali. Automobili, sidecar e le onnipresenti jeepney che nelle Filippine sostituiscono i mezzi pubblici si contendono la strada con i passanti che non hanno a disposizione alcun marciapiede.

I gusti e l’identità
Le case si susseguono ai margini delle arterie principali. Alla lontana restituiscono l’idea delle villette a schiera, ma non sono tutte uguali. Anzi, ognuna differisce per colori e architettura. Riflette i gusti e l’identità della famiglia che l’ha costruita.

Qui, come in tutta la regione, le rimesse dei circa dieci milioni di filippini che lavorano all’estero hanno permesso di trasformare le baracche di bambù e lamiera in case in muratura. Secondo la Banca mondiale, nel 2015 il totale ha sfiorato i 28 miliardi di euro, il 10 per cento del pil del paese. Vuol dire che in media ognuno dei filippini che lavora all’estero, e in Italia sono circa 120mila, l’anno scorso ha mandato a casa quasi tremila euro. Di fatto lavorano nelle nostre case per costruire, piano su piano, le loro.

Come ogni storia di migrazione, quello dei filippini è un viaggio che segue i percorsi dei legami di parentela

“Quando sono partita, l’obiettivo era chiaro: pagare gli studi ai miei figli e costruire questa casa”. Elsie Lescano, 44 anni e un figlio di cinque nato a Milano, ci invita a entrare. I pochi metri quadrati del salotto servono anche da magazzino del piccolo negozio di generi di prima necessità che ha messo su per campare. È pieno di dolciumi e caramelle, quanto basta per capire che a Mataas na Kahoy, così si chiama la località in cui stiamo, i bambini rappresentano la maggioranza assoluta della popolazione.

Al piano superiore c’è una stanza da letto, dove dormono in cinque. Elsie ha lavorato in Italia dal 2007 al 2012, ma è più a suo agio a parlare in inglese. È partita a 35 anni: i due figli maggiori entravano all’università e lei si era appena separata dal marito. Non avrebbe potuto affrontare le spese della loro istruzione. Così quando sua zia, la madre di Angela, le ha proposto di raggiungerla in Italia si è trovata di fronte a una scelta obbligata.

Elsie Lescano con il figlio e la madre nel suo piccolo negozio a Batangas, Filippine, il 19 novembre 2016. (Nicola Longobardi)

Come ogni storia di migrazione, quello dei filippini è un viaggio che segue i percorsi dei legami di parentela. “Quando sono arrivata a Milano, ero nervosa. Pensavo: è un paese diverso, con una lingua e una cultura che non conosco. Come farò? Ma poi sono venuti a prendermi in aeroporto. Mia zia mi ha portato a vedere il Duomo e abbiamo fatto una foto con i piccioni. Mi ha consigliato di cominciare subito a studiare l’italiano”. Dopo quattro mesi ha cominciato a lavorare, “è stato il momento più bello della mia permanenza in Italia: prima cominciavo a guadagnare e prima sarei potuta tornare dai miei figli”. Cinque anni sono lunghi, soprattutto per i ragazzi che nel frattempo diventavano adulti. Elsie li chiamava ogni settimana con Skype, e ogni mese mandava la metà del suo stipendio a suo padre, quel nonno che nel frattempo si prendeva cura di loro e che, mattone dopo mattone, tirava su la casa dove sarebbero tornati a vivere, insieme.

I nuovi eroi
Mentre parliamo del più e del meno scopriamo che anche la sorella di sua madre ha lavorato all’estero: 11 anni a Parigi. In tutta la zona vivono circa 30mila persone e, come ci spiegano, non c’è famiglia che non abbia almeno un parente all’estero. Chi in Medio Oriente, chi in Europa, chi negli Stati Uniti o nei più vicini paesi asiatici.

Il loro sforzo è ormai riconosciuto anche dal governo che sta lavorando alla creazione di una banca che porti il loro nome e di cui possano diventare azionisti. Nel frattempo ne elogia lo spirito di sacrificio e li chiama bagong bayani, nuovi eroi. Non sono giovani e belli, ma la resilenza non gli manca. Si lasciano indietro famiglie spezzate e figli cresciuti lontano dai genitori. Ma sono troppo orgogliosi o disperati per ammetterlo, figuriamoci per piangerci su.

Elsie e Angela ci portano in un’altra casa, a meno di un chilometro dalla loro. È più grande ma, al di là di un divano e qualche soprammobile religiosamente protetto da un telo di plastica, è completamente spoglia. I proprietari sono parenti alla lontana. Anche qui vivono in cinque. Ad attirare la nostra attenzione è un bambino che ha appena dieci anni. Si chiama Peter Gabriel, “come il cantante”, ed è nato a Biella. Quando aveva otto mesi l’hanno riportato qui. Da allora vive con i nonni e le zie. Vede la mamma una volta all’anno e il papà ogni due. Fa la quarta elementare in una scuola privata e non ci guarda mai in faccia. In famiglia ogni giorno si aspetta la domenica, quando grazie a Skype vedrà i suoi genitori su un monitor.

“Lavorano tanto, non avrebbero tempo per badare a lui. Ma guardate quanto è bello!”, ci dice sua zia. Cristy Lescano ha trent’anni e un figlio di pochi mesi. Anche lei vive in questa casa. “Gli abbiamo spiegato la situazione, e lui non si lamenta mai. Lo tratto come se fosse mio figlio. I suoi genitori amano stare in Italia, lì hanno un lavoro. Metà di questa casa è stata costruita con le loro rimesse. Non possiamo certo lamentarci!”. Cristy però non vorrebbe seguire le orme di suo fratello: “Non voglio emigrare. E poi devo prendermi cura di nostra madre che sta invecchiando”.

A Mabini, le case, rispetto a quelle che abbiamo visto nel villaggio di Angela, sono vere e proprie ville

Nel frattempo è tornata anche l’altra zia. Mary Rose ha 27 anni ed è l’unica delle persone che incontriamo ad avere un lavoro stabile. Fa l’impiegata presso il municipio, guadagna 150 euro al mese e parla un buon inglese. Non ha figli ed è l’unica che, prendendoci da parte, ci confida di non sentirsi a suo agio a crescere il figlio di suo fratello. “Non è normale”, è tutto quello che riesce a dirci. Si vede che non sono persone abituate a parlare dei propri sentimenti. Come tutti gli asiatici, nasconde l’imbarazzo dietro un sorriso. “Spero che i genitori tornino prima che Peter Gabriel finisca le elementari”. E cambia discorso, in fretta: “Ma voi che siete venuti a fare qui?”.

Le spieghiamo di aver saputo che nella vicina città di Mabini ci sarebbe una sorta di Little Italy costruita dai filippini che hanno lavorato in Italia. Poi, che tramite la nostra amica siamo entrati in contatto con Angela. E così avevamo scoperto anche la loro comunità. “C’è pure una piccola Italia qui vicino, a Balorgor, dista una decina di chilometri”, esclama compiaciuta. “Ma a Mabini le case sono più belle”, la interrompe un familiare. “Sì, quelle sì che son case!”, fa eco un’altra. Così l’indomani ci avventuriamo. Anche Angela vuole venire con noi, è curiosa di sentire le interviste e di vedere un posto diverso. Da quando è tornata a Mataas na Kahoy non ha fatto altro che il tragitto casa-scuola.

Il sogno realizzato
La posizione di Mabini, una municipalità di 40mila abitanti, è invidiabile. La città si sviluppa su un promontorio bagnato dal mare su tre lati. L’Italian village, come lo chiamano, costeggia una stretta e ripida strada che dal mare sale in collina. Siamo nel barangay Pulang Lupa, un rione che ospita oltre duemila persone. Anche qui è evidente che le case cominciano a essere abitate prima ancora che la costruzione sia ultimata. Ma queste, rispetto a quelle che abbiamo visto nel villaggio di Angela, sono vere e proprie ville.

Mabini, Filippine, il 20 novembre 2016. (Nicola Longobardi)

“Solo quando metti le mattonelle capisci che il tuo sogno di abitare in una casa vera si è realizzato”, esclama Priscilla Manalo, 64 anni, di cui diciassette passati a lavorare in Italia tra Firenze, Milano e Modena. “Sono partita da sola, ma non puoi immaginare il sacrificio di lasciare quattro figli piccoli. Quando sono cresciuti gli ho trovato lavoro in Italia, qui non c’è nulla da fare, e lo sai cosa succede ai giovani quando non hanno nulla da fare…”. Chiacchieriamo in veranda, chi passa si ferma a salutare. Nonostante le palme e i bananeti che ci circondano, è tutto un susseguirsi di “buongiorno, signora”. Priscilla è fiera di farci vedere le altre due case che sta facendo costruire per i suoi figli. Spera che vengano ad abitarle presto, “quando avranno risparmiato abbastanza”, perché “è una soddisfazione unica godersi la casa costruita con il proprio sudore”.

“Il terreno in questa comunità è stato grosso modo diviso in parti uguali tra tutte le famiglie. Ma poi servono i soldi! Per costruire una casa come quelle che vedi servono almeno 90mila euro e una decina di anni. È per questo che siamo andati tutti in Italia. Ma anche quando la casa è costruita c’è sempre bisogno di qualcuno che mantenga la famiglia. Bisogna pure continuare a mangiare!”. A parlare è Nicolas Castillo, 49 anni di cui 16 in Italia e ancora tre figli da mandare a scuola. Per questo la sua casa è la più modesta del paese, “prima l’istruzione, poi le comodità”. Il quarto figlio, quello più grande, è già andato all’università. Ora vive a Manila, dove fa il commercialista.

L’Italia per loro è una sorta di rito di passaggio che invece di farli crescere li riporta al punto di partenza

Quando lo incontriamo è sotto una pergola assieme agli altri uomini del rione. Chi non è in Italia a lavorare gioca a biliardo, chiacchiera, si annoia e scommette sui galli. È quella la quotidianità che più gli manca quando sono all’estero, quella rete di pettegolezzi, famiglie estese e amicizie di infanzia a cui vogliono sempre tornare. Anche se il lavoro proprio non c’è. Solo ogni tanto li chiamano come manovali, li pagano tre euro per una giornata. Niente su cui si possa costruire una vita serena. Nicolas, che immagina qui il futuro per sé e i suoi figli, vorrebbe comunque ripartire subito. A Firenze faceva il badante e ora aspetta che sua sorella lo faccia chiamare da un’altra famiglia: “Ormai è un anno che sono in vacanza!”.

Ci offre una bibita nel suo giardino. E poi ci porta a conoscere gli altri suoi vicini. È vero, in questo barangay parlano tutti italiano. Ma l’Italia per loro è sempre un’esperienza a termine, una sorta di rito di passaggio che invece di farli crescere li riporta al punto di partenza. Per ogni padre che torna, c’è un figlio che se ne va. Per ogni donna che parte, un marito che rimane ad aspettarla. L’Italia è solo una lunga parentesi che non vedono l’ora di chiudere.

Nessuno di quelli che incontriamo ha riportato indietro un souvenir o una foto in ricordo della sua esperienza all’estero. Solo Angela, che ora abita in una casa dove ancora devono costruire il controsoffitto, conserva una foto dei suoi “nonni” adottivi italiani. Chissà se nella nuova scuola filippina le hanno già fatto studiare José Rizal, l’ispiratore della rivoluzione che alla fine dell’ottocento portò l’arcipelago a ribellarsi alla dominazione spagnola. Una delle sue frasi più famose recita: “Chi non sa guardare alle proprie origini, non raggiungerà mai la propria destinazione”.

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