Sotto il sole rovente, in attesa dell’autobotte che porterà l’acqua a casa sua, Chandra Shekhar ricorda che un tempo Bangalore, nel sud dell’India, era ricca di laghi cristallini e giardini lussureggianti. “Ora sono spariti, al loro posto c’è un’infinità di palazzi di cemento”, spiega Shekhar. Ingegnere in pensione di 59 anni, fin da ragazzo ha assistito alla progressiva trasformazione di Bangalore in un centro nevralgico dell’informatica. “Era la città dei laghi. Ora è la città del cemento. Tutta l’acqua è scomparsa”.
Anni di urbanizzazione selvaggia, aumento esponenziale della popolazione e cattiva gestione delle risorse idriche hanno prosciugato i rubinetti, ridotto la portata delle falde acquifere e inquinato i laghi al punto tale che spesso prendono fuoco. Bangalore sta pagando un prezzo altissimo per i successi ottenuti da quando, alla fine degli anni novanta, ha cominciato ad attrarre grandi aziende come Microsoft, Ibm, Dell e Google.
Negli ultimi anni i posti di lavoro sono aumentati vertiginosamente, ma allo stesso tempo milioni di persone sono rimaste senza allacciamento idrico e si ritrovano costrette a dipendere da un esercito di autocisterne pubbliche e private, che prelevano l’acqua da pozzi fuori della città. Alcune famiglie ne hanno scavato alcuni in modo illegale per poter bere, lavarsi e fare il bucato. Anche nei quartieri dove l’allacciamento idrico esiste, spesso l’acqua gocciola appena dai rubinetti.
Bangalore 360°
Shekhar – che nel 2015 ha pagato 150mila rupie (circa duemila euro) per l’allacciamento idrico – è comunque costretto a ricorrere alle cisterne, spendendo fino all’equivalente di 44 euro al mese.
Nonostante le difficoltà attuali, però, i grandi palazzi residenziali e i grattacieli di acciaio e vetro continuano a moltiplicarsi a causa del flusso continuo di immigrati. Alcuni funzionari sottolineano che le autorità cittadine, impreparate per la rapidità dello sviluppo, non sono state capaci di mettere a punto un piano per soddisfare la crescente domanda d’acqua.
Prezzi proibitivi
Le dimensioni di Bangalore sono triplicate nel giro di un decennio, fino a raggiungere gli 800 chilometri quadrati – pari a metà di Londra – e a inglobare decine di centri abitati. Dal 2001 la popolazione è più che raddoppiata. Oggi gli abitanti di Bangalore sono dodici milioni e secondo le previsioni entro il 2031 dovrebbero diventare venti milioni.
Il Consiglio per la fornitura idrica e la rete fognaria (Bwssb), il principale ente per la gestione dell’acqua potabile, rifornisce appena il 60 per cento delle abitazioni.
“Non arriviamo in alcune zone, soprattutto nelle periferie” ammette Tushar Giri Nath, presidente del Bwssb. Il costo dei terreni per creare bacini idrici e altre infrastrutture è sempre più proibitivo, dunque “è difficile rifornire quelle aree, ma ci stiamo provando”, spiega Nath.
Secondo Nath uno dei principali ostacoli è rappresentato dal fatto che gran parte dell’acqua arriva dal fiume Cauvery, a più di cento chilometri di distanza, e per arrivare a Bangalore dev’essere pompata in salita, con una spesa per la corrente elettrica di sei milioni di dollari al mese. Come se non bastasse, più del 20 per cento si perde per strada a causa delle fessure nei tubi vecchi e corrosi, e nelle cisterne.
Il Bwssb sta costruendo una quinta (e probabilmente ultima) conduttura che, una volta ultimata nel 2023, trasporterà ogni giorno 750 milioni di litri d’acqua dal Cauvery.
Il ruolo dei privati
Bangalore sta sperimentando nuove soluzioni anche a causa della competizione con altre città indiane altrettanto “assetate”, tra cui Chennai. Per il momento a risolvere gran parte delle mancanze sono i privati.
Nelle zone periferiche come Sarjapur e Whitefield, dove la rete idrica non arriva, i palazzi residenziali e gli uffici delle società informatiche si affidano unicamente alle autobotti che prelevano l’acqua da pozzi scavati a ritmo frenetico e sempre più in profondità a causa della riduzione delle falde. Quest’ultimo fenomeno è talmente preoccupante che l’anno scorso il governo ha previsto un loro totale prosciugamento – almeno nei livelli raggiungibili – entro la fine del 2020.
L’esperto Vishwanath Srikantaiah è convinto che la previsione del governo sia “esagerata”. Ma Harini Nagendra, autrice del libro Nature in the city, sottolinea che negli ultimi 15 anni il prezzo per un carico d’acqua è triplicato, mentre i privati scavano sempre più in profondità.
L’India sta attraversando la peggiore crisi idrica della sua storia
A Springfields, un lussuoso complesso residenziale di Sarjapur con campi da tennis, prato all’inglese e piscine, i residenti comprano circa 300mila litri d’acqua ogni giorno. Ogni carico costa fino a 700 rupie e d’estate i prezzi possono raggiungere le duemila rupie, sottolinea un esponente dell’associazione dei residenti.
La dipendenza dai rifornitori privati alimenta la paura che la “mafia dell’acqua” – come vengono chiamati i capi delle aziende che gestiscono le autobotti – possa interrompere la fornitura da un momento all’altro.
I proprietari sostengono che la loro rete è una risposta all’incapacità del governo, e sottolineano i problemi che li ostacolano, dal peggioramento del traffico alla riduzione delle falde acquifere. Uno di loro riferisce di aver dovuto scavare un pozzo a quasi seicento metri di profondità, dieci volte più giù rispetto a quanto si faceva dieci anni fa.
Conto alla rovescia
“Non si tratta più di semplice estrazione, ma di scavi paragonabili a quelli fatti nelle miniere per raggiungere l’acqua” con buone possibilità di non trovarla, spiega lo studioso Avinash Mishra. In un rapporto pubblicato l’anno scorso dice che l’India “sta attraversando la peggiore crisi idrica della sua storia”. E aggiunge: “Se continuano a scavare così a fondo finiranno per estrarre petrolio”.
Mishra sta lavorando a un secondo rapporto ed è convinto che “un atteggiamento indifferente e la mancanza di volontà politica” impediscano a Bangalore di risolvere la crisi idrica.
Ricordando che nel 2017 l’amministrazione di Città del Capo, in Sudafrica, ha avviato un conto alla rovescia verso il “giorno zero” in cui i rubinetti potrebbero prosciugarsi, Mishra evidenzia i rischi che stanno correndo molte città indiane.
Roshan Srivastava, 27 anni, ingegnere informatico di Bangalore, ogni mese sborsa fino a tremila rupie per portare l’acqua delle autobotti nel suo appartamento, e teme che “nel futuro prossimo potremmo fare la fine di Città del Capo”. “È allarmante”, sottolinea, “non è un modello sostenibile. Quanto possiamo andare avanti così?”
In ogni caso sarà molto difficile cambiare un sistema idrico poco efficiente, che ha poche infrastrutture e dietro al quale ci sono interessi nascosti.
Le incognite sul futuro
Likith R., 22 anni, è il capo dell’azienda Sree Balaji , che costruisce circa 15 cisterne per autobotti al mese e le vende a 350mila rupie ciascuna. “Gli affari vanno bene, ma come cittadino sono terrorizzato dalla situazione a Bangalore”, spiega, alzando la voce per coprire il frastuono dell’officina.
Mentre i pozzi cittadini si esauriscono, i proprietari delle autobotti scavano sempre più in profondità o si spostano nelle zone rurali “prosciugandole completamente”, spiega Likith. “Viene paura a pensarci, perché non so cosa riserverà il futuro ai nostri figli”, dice l’imprenditore, laureato in economia e commercio.
Mentre l’attività di Likith va a gonfie vele, quella di M. Raju – uno dei cinquanta dipendenti della lavanderia all’aperto Dhobi Ghat a Bangalore – subisce le conseguenze dell’emergenza idrica. La minore quantità di acqua disponibile li spinge ad accettare meno capi, lenzuola e tovaglie da lavare. Dieci anni fa un unico pozzo produceva acqua a sufficienza per la loro attività, ma nel 2011 si è prosciugato, racconta Raju. Un politico locale ne ha fatto aprire due nuovi, ma uno si è prosciugato nel 2014.
“Abbiamo un problema”, ripete Raju, 40 anni, lavandaio da 25 anni sulle orme del padre. “I miei figli non potranno fare questo lavoro. La professione finirà con me”. Per il momento Raju spera nella stagione dei monsoni.
Oltre al fiume Cauvery, i monsoni sono infatti la principale fonte d’acqua per Bangalore. Tuttavia, secondo gli ambientalisti, le precipitazioni instabili causate dal cambiamento climatico hanno stravolto la loro regolarità. Inoltre, quando arriva un monsone bastano pochi minuti per mandare in tilt le condutture della città, e l’acqua in eccesso finisce per riversarsi in strada.
Progetti per far rivivere i laghi
Bangalore è stata costruita intorno a una serie di laghi che funzionavano da bacini idrici e ricaricavano le falde, garantendo una fonte rinnovabile. Ma i laghi hanno subito gli effetti dell’urbanizzazione, sono finiti dentro progetti edilizi che non ne tengono conto o sono stati riempiti di prodotti tossici, acque di scarico e spazzatura prodotti dalle industrie e dalle abitazioni. A volte il lago Bellandur, il più grande della città, prende letteralmente fuoco. Altri laghi sono stati coperti dall’asfalto e dal cemento per far posto a nuovi edifici. Altri ancora si sono semplicemente prosciugati.
Nel 1960 a Bangalore c’erano più di 260 laghi. Oggi ne sono rimasi circa ottanta, di cui la metà ecologicamente morti. Oggi sono in corso diversi tentativi per affrontare questo problema.
Il lago Jakkur ha trovato nuova vita nell’ultimo decennio grazie all’azione delle organizzazioni benefiche, del governo e della popolazione. Sulla sua superficie sono tornati i pescatori e le sue acque contribuiscono a ricaricare le falde, spiega Srikantaiah.
Una quarantina di progetti simili sono in corso altrove. Srikantaiah chiede che siano scavati un milione di piccoli pozzi in tutta la città per raccogliere l’acqua dei monsoni e incanalarla nelle falde. Al momento ne esistono centomila. L’espansione di questa rete potrebbe fornire a Bangalore una quantità d’acqua paragonabile a quella proveniente dal fiume Cauvery.
Cosa fa l’amministrazione
In una città assetata “ogni famiglia può contribuire alla soluzione”, sottolinea Srikantaiah. Dal 2009 il Consiglio per l’acqua porta avanti campagne per promuovere la raccolta delle acque piovane. L’amministrazione ha reso obbligatoria per tutti i complessi residenziali la costruzione di sistemi di raccolta.
Eppure, nonostante siano state fatte migliaia di multe, oggi viene raccolto meno del dieci per cento dell’acqua piovana, spiega l’esperto Ammanaghatta Rudrappa Shivakumar.
Secondo Shivakumar la responsabilità è della mancanza di incentivi a risparmiare. Quelli del governo – pensati per garantire ai più poveri la possibilità di cucinare e pulire – finiscono per far costare mille litri d’acqua meno di un dollaro.
Per Shekhar la soluzione alla crisi è un maggiore controllo “dell’attività edilizia sfrenata, soprattutto nelle aree dove la carenza idrica è maggiore. Se fossi il primo ministro in sei mesi cambierei tutto”, promette.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questo articolo fa parte della serie Un pianeta senz’acqua, realizzata dalla Thomson Reuters Foundation. Leggi la versione originale.
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