Mentre i bambini erano occupati a preparare le decorazioni da mettere in strada per il Ramadan, e gli adulti ascoltavano le previsioni del tempo che consigliavano di non esporsi al sole perché le temperature avrebbero superato i 40 gradi, Heba Ghareeb si apprestava a incontrare il suo fidanzato per la seconda volta in due anni.

Si era alzata alle tre di notte, aveva preparato qualcosa da mangiare e da bere, e si era avviata verso Il Cairo da Qanater, nel governatorato di Qalyubiya, alla periferia della capitale. Alle sette di mattina è arrivata a destinazione: la sezione di massima sicurezza di Aqrab, nel complesso carcerario di Tora. Il nome significa scorpione, ma spesso le famiglie dei detenuti la chiamano “la prigione degli spiriti maligni”. Il suo fidanzato Ahmed Ali è detenuto lì con l’accusa di spionaggio a favore del Qatar insieme all’ex presidente Mohamed Morsi. La sua condanna a morte è stata confermata il 18 giugno.

Ghareeb racconta di essere riuscita a vederlo solo una volta negli ultimi due anni, quando si è ammalato e hanno dovuto portarlo in ospedale. In seguito tutti i suoi tentativi di andarlo a trovare sono falliti. Ha sue notizie solo dai familiari di altri detenuti che riescono a visitare i loro cari.

Quando l’8 maggio il fascicolo di Ahmed è stato mandato al gran muftì, Ghareeb ha capito che il suo fidanzato avrebbe passato il Ramadan, e forse molti altri mesi, nel reparto H4, le cui celle in origine erano gabinetti. L’amministrazione, spiega, ha deciso di usarli come luoghi di detenzione per i condannati a morte a causa del forte aumento delle esecuzioni capitali avvenuto negli ultimi tre anni.

Non ci sono né lenzuola né coperte, i ventilatori sono vietati, non ci fanno mai uscire e il cibo è immangiabile

In una lettera che è riuscito a mandarle, Ahmed descrive così le sue condizioni di vita nel reparto H4: “Quando mi stendo a terra, tocco il gabinetto con i piedi. Non c’è nessuna finestra, solo una fessura nella porta della cella, che viene aperta e chiusa a capriccio dalla direzione del carcere. Non ci sono né lenzuola né coperte, i ventilatori sono vietati, non ci fanno mai uscire e il cibo è immangiabile. Le pareti sono piene di scritte, le storie di vita di tutti i detenuti che sono stati qui. Molti hanno pensato al suicidio perché non sopportavano questo isolamento”.

Ghareeb racconta di essersi messa in fila con più di duecento persone davanti ai cancelli della prigione. Quando è arrivata lì davanti, l’hanno informata, come molte volte negli ultimi due anni, che quel giorno non sarebbe potuta entrare. Questa volta, il motivo che ha addotto Mohamed Fawzy, il funzionario che si occupa di organizzare le visite, è stato che era arrivata in ritardo rispetto all’appuntamento delle sei. “Avevo prenotato la visita diversi giorni prima”, dice. “Speravo di vedere Ahmed prima del Ramadan. Ero in ritardo solo di un’ora, mentre le volte precedenti eravamo arrivati alle cinque e avevamo aspettato quattro o cinque ore, senza sapere se avremmo avuto la possibilità di entrare. Vogliono solo tormentarci”.

La sofferenza di altre famiglie che arrivano da governatorati più lontani, continua Ghareeb, raddoppia durante il Ramadan. “Alcuni vivono nel Sinai, a Monufiya o Gharbiya. Devono venire due volte: una per prendere appuntamento e un’altra per la visita. E quello che è successo a me succede anche a molti di loro, vengono fino a qui e non possono vedere i loro parenti. Qualcuno passa la notte davanti ai cancelli della prigione per essere già pronto”.

Linea dura sul cibo

I funzionari della prigione si sono rifiutati di prendere il cibo che ha portato per Ahmed.

“In genere non lo accettano”, dice Ghareeb. “A volte ne fanno entrare un po’ e confiscano il resto. Una volta, una famiglia ha portato un pollo. Il funzionario ha ordinato che venisse tagliato in quattro, ne ha lasciato passare solo un quarto e si è preso quello che restava. Speravo che la direzione fosse un po’ più comprensiva durante il Ramadan”, aggiunge mestamente.

Ghareeb pensa che i funzionari di Aqrab adottino questa linea dura per costringere i detenuti a usare la mensa del carcere, dove un pasto costa da 70 a 100 lire egiziane (tra i sette e i dieci euro).

“L’unica cosa che ci permettono di fare è depositare soldi alla mensa per i nostri parenti”, spiega.

Il ministero dell’interno sostiene che un decreto del 1998 ha stabilito quello che devono mangiare i detenuti “in base agli studi fatti dalle autorità carcerarie e dall’istituto nazionale per la nutrizione del ministero della salute. Questo provvedimento ha fatto raddoppiare il precedente costo dei pasti, rendendoli uguali a quelli consumati dalle famiglie della classe media. La legge prevede anche una dieta speciale per gli ammalati, le donne incinte o che allattano, i neonati e i bambini in fase di svezzamento”.

Nonostante questo, tutte le persone che abbiamo intervistato si sono lamentate della qualità dei pasti della prigione. La maggior parte dei detenuti dipende dal cibo portato da fuori, soprattutto durante il Ramadan. Le famiglie e i volontari hanno escogitato un sistema chiamato tableyya, che consiste nel preparare insieme i pasti di tutti i detenuti di una determinata cella e portarli alla prigione nei giorni di visita a turno, garantendo così l’arrivo regolare di cibo per tutta la settimana.

Attaccano dei sacchi da una parete all’altra con le corde per dormirci sopra, perché il pavimento è troppo affollato

Nella prigione centrale di Giza, i detenuti hanno diritto a un unico pasto freddo a base di pane, formaggio e marmellata, ci ha detto uno di loro in attesa di giudizio. Per mangiare qualcosa di diverso dipendono dal sistema della tableyya, dice, “grazie a cui arriva cibo in abbondanza, che spesso però si guasta a causa del caldo e della mancanza di frigoriferi”.

Hend al Qahwagy, sorella di Loai al Qahwagy e moglie di Amr Atef, entrambi detenuti nella prigione di Borg al Arab da due anni per aver partecipato a una manifestazione di protesta ad Alessandria, avverte: “Non credete ai giornali quando scrivono che Borg al Arab è un albergo a cinque stelle. Mio fratello e mio marito mi hanno detto che perfino i gatti si rifiutano di mangiare la carne che gli danno due volte a settimana. I pasti della prigione sono orribili. È per questo che le famiglie si sono organizzate per portare da mangiare ai detenuti ogni giorno”.

I detenuti in attesa di giudizio hanno diritto a una visita a settimana, mentre quelli che stanno scontando una pena possono riceverne una al mese. Durante il Ramadan sono concesse a tutti due visite in più.

“Con altre famiglie abbiamo concordato di preparare i pasti per tutti i detenuti della cella – che sono circa 27 – e di portarli ogni giorno a turno”, spiega Qahwagy.

Da quando il prezzo dei generi alimentari è aumentato, calcola che le due visite settimanali al fratello e al marito le costano 500 lire egiziane ciascuna, per un totale di duemila al mese (duecento euro).

“Se fosse solo per il costo dei pasti, non sarebbe un problema”, dice. “Ma le condizioni di vita nelle celle sono terribili, soprattutto quando fa molto caldo. Mio fratello mi ha raccontato che per dormire c’è la seconda fila. Attaccano dei sacchi da una parete all’altra con le corde per dormirci sopra, perché il pavimento è troppo affollato. E comunque soffocano dal caldo, nonostante i ventilatori”, spiega.

Caldo asfissiante e sovraffollamento

Anche la direzione della prigione centrale di Giza ha permesso alle famiglie di portare i ventilatori, ma con il sovraffollamento, il caldo asfissiante e l’alto tasso di umidità non servono a molto.

Un detenuto in attesa di giudizio, chiuso in una cella di dodici metri per sei con altre 34 persone, dice: “Vorremmo che i ventilatori funzionassero almeno per cambiare l’aria. La situazione è disastrosa, soprattutto durante il Ramadan, perché per la maggior parte del tempo non c’è acqua”.

Omar Hazek, che ha passato due anni nel carcere di Borg al Arab prima che gli fosse concessa la grazia dal presidente a settembre, dice che durante lo scorso Ramadan la direzione del carcere ha confiscato i ventilatori e li ha restituiti solo quando un detenuto è morto.

Il sovraffollamento è uno dei problemi principali del sistema penitenziario egiziano. Con 62mila persone dietro le sbarre (dato del 2011), secondo un rapporto del Centro internazionale di studi sulle carceri, l’Egitto è al venticinquesimo posto su 223 paesi per il più alto numero di detenuti. Vari osservatori sostengono che adesso questo numero è ulteriormente salito, soprattutto a causa dell’aumento dei prigionieri politici a seguito degli arresti effettuati dopo la deposizione di Morsi del 2013. Sebbene il governo abbia promesso di costruire nove nuove prigioni, il problema sembra persistere.

Abbiamo cercato di contattare Hassan al Sohagy, che dirige il dipartimento delle carceri, per chiedergli un commento sulle testimonianze dei detenuti e delle loro famiglie. Il suo ufficio ci ha detto che era in riunione e ci avrebbe richiamato appena finiva. Non lo abbiamo più sentito.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è uscito sul giornale online Mada Masr.

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