Quando Lena (il nome è stato modificato) si sveglia, non vede niente. Ha una benda sugli occhi e le mani legate dietro la schiena. La ragazza, una giornalista ucraina di ventidue anni, non sa dove si trova ma, in lontananza, sente rumori e grida. Ha la sensazione di essere “forse in una cantina”. Ha anche sete. È presa dal panico e si mette a urlare. Una guardia entra bruscamente e la colpisce con un fucile “finché non smette”, poi se ne va. Il giorno dopo, sempre senza acqua né cibo, Lena urla ancora. La sua guardia la colpisce ancora. Ogni tanto la afferra per farle un’iniezione. Allora la giovane giornalista comincia a sudare e “perde la nozione del tempo”. Quando non la tormentano, riflette, riscrive la storia. Pensa che avrebbe dovuto dare ascolto ai suoi amici.
Loro l’avevano avvertita. Donetsk, nella zona separatista filorussa nell’est dell’Ucraina, è diventato un posto pericoloso per una giornalista, soprattutto se viene da Kiev. “Se non ci va nessuno, il mondo non saprà quello che sta succedendo laggiù”, aveva risposto ai suoi amici. Era il maggio del 2014. Da allora, non passa un giorno senza che si penta della propria decisione.
Incontriamo Lena per la prima volta in una conversazione video via Skype. La ragazza, occhi castano chiaro come i capelli, ha lasciato l’Ucraina e ha trovato rifugio in Germania. Quando la conversazione comincia e l’ex prigioniera appare davanti a un semplice muro bianco, non sappiamo nulla della storia che sta per raccontarci. È stata la sua avvocata, che assiste altre ex prigioniere, a darci il suo numero. Lena non ha mai raccontato la sua detenzione nei particolari, né agli attivisti dei diritti umani né ai medici che giudicavano il suo caso già “abbastanza complicato”. Ma il 24 ottobre 2016, al sicuro dietro allo schermo del suo computer, nervosa, la giovane donna ha deciso di parlare.
Dopo aver passato alcuni giorni legata nella cantina, subisce il primo “interrogatorio”. Quando gli uomini che la interrogano scoprono nella sua fotocamera alcune immagini della rivoluzione di Maidan – il movimento di protesta sorto a Kiev che ha portato alla fuga del presidente Janukovič all’inizio del 2014 – la situazione si fa ancora più tesa. Le guardie si trasformano progressivamente in torturatori e la colpiscono, sulla testa e sul ventre, non solo con i pugni ma anche con la sua fotocamera. Il messaggio è chiaro: è il prezzo da pagare per aver fatto delle foto. Poiché questo non basta a far parlare Lena – che non ha granché da confessare – fanno venire un altro prigioniero: “Se tu non rispondi, sarà lui a prenderle!”. Piovono colpi, per due o tre ore ogni volta.
Al centro c’è un materasso. Sopra, sdraiato, c’è uno dei capi. I soldati la gettano nella stanza: ‘Ecco, c’è una donna con cui ti puoi divertire’
Ad angosciarla, più che le botte durante gli interrogatori, è la paura di essere violentata. Le prime carezze la atterriscono: “Nella cella, le guardie mi toccavano i capelli, mi palpavano. A volte mi dicevano: ‘Vieni, giochiamo un po’!’. Durante un interrogatorio, un uomo mi ha sbottonato la camicia, mi ha messo una mano sulla guancia e l’altra sul corpo. Ero terrorizzata”.
Passano quasi due settimane e poi, una mattina, si sveglia senza la benda sugli occhi. Vengono a prenderla due guardie, che la portano in una stanza che non conosce. Al centro c’è un materasso. Sopra, sdraiato, c’è uno dei capi. I soldati la gettano nella stanza: “Ecco, c’è una donna con cui ti puoi divertire”. Lena li supplica di non toccarla. Inutile. Ci si mettono in tre o quattro per spogliarla: “E poi hanno cominciato a violentarmi. Prima gli uomini vestiti di nero, i capi. Poi quelli in verde”. Dall’altra parte dello schermo, Lena si ferma, prende un sorso d’acqua e fa un respiro profondo. Quando ricomincia a parlare, il suo racconto si fa intermittente: “Quel giorno, sono stati almeno in otto. Ho perso conoscenza diverse volte. Mi gettavano in faccia delle secchiate d’acqua fredda per svegliarmi”.
Lena ritiene che gli uomini vestiti di nero siano russi e ucraini, che riconosce dall’accento, e quelli con la divisa verde ucraini. “Entravano, uscivano, mi soffiavano fumo di cannabis in faccia per svegliarmi. Scherzavano, ascoltavano musica…”. Alla fine i suoi violentatori, ormai stanchi, se ne vanno, lasciandola mezza nuda, il corpo martoriato steso sul freddo pavimento della sala vuota. Le portano del cibo, che lei non mangia, e dei vestiti, che non indossa. Quando la riportano nella sua stanza, il sole è tramontato. Lena viene rilasciata il giorno dopo.
Perché hanno aspettato l’ultimo giorno per violentarla? Nella sua mente continua a risuonare la frase pronunciata da uno degli aguzzini: “Mi hanno detto che nessuno voleva pagare per la mia liberazione: né la mia famiglia né lo stato. Non avevo niente che gli interessasse, né informazioni né soldi”. I suoi carcerieri hanno preteso un altro tipo di compenso? I miliziani separatisti hanno voluto “distruggerla” prima di rilasciarla? Assicurarsi che non sarebbe più tornata, con la sua macchina fotografica, a testimoniare cosa succede sul fronte separatista? Quasi tre anni dopo, la reporter idealista non è che l’ombra di se stessa; non sa se le sue domande avranno mai una risposta.
Stupri per ottenere informazioni
Il caso di Lena non è isolato. Sembra che il numero delle violenze sessuali sia molto aumentato in Ucraina – dove, da quasi tre anni, Kiev affronta a est i ribelli filorussi appoggiati o, in alcuni casi, inviati da Mosca, che tuttavia non ammette il coinvolgimento di truppe regolari. Secondo il rapporto Dolore silenzioso, pubblicato nell’ottobre scorso dal gruppo di ong Giustizia per la pace nel Donbass, una delle poche organizzazioni che si sono occupate della questione, un terzo degli intervistati (soprattutto civili e soldati detenuti) ha parlato di episodi di violenza sessuale. “La violenza raggiunge livelli di gravità insopportabile”, ma “resta sottostimata e trascurata dalle autorità”, denuncia il rapporto. Le aggressioni, commesse soprattutto tra la primavera del 2014 e l’estate del 2015, sono rivolte tanto contro gli uomini quanto contro le donne e raggiungono talvolta un grado estremo di violenza.
Gli autori hanno raccolto la testimonianza di due donne a cui hanno trafitto il petto con un cacciavite e quella di un uomo violentato con un trapano. Minacce, nudità forzata, scosse elettriche agli organi genitali, mutilazioni e stupri: nell’Ucraina in guerra, la realtà della violenza sessuale è multiforme. Stando alla nostra indagine e ai primi rapporti pubblicati, spesso si verifica in centri di detenzione irregolari (ex carceri, edifici militari o amministrativi, case o fabbriche requisite, ma anche scuole e cantine).
Anche il profilo delle vittime è variegato. Combattenti, oppositori riconosciuti o sospettati di simpatie per l’avversario, giornalisti, così come persone appartenenti a minoranze etniche, religiose e sessuali. Alcuni, tuttavia, si sono semplicemente trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato. Sono pochissime le donne – e ancora meno gli uomini – che hanno il coraggio di testimoniare: “Per la maggior parte delle vittime è troppo presto, si rifiutano di affrontare l’argomento”, afferma Anna Mokrousova, psicologa dell’Uccello blu, una ong di sostegno agli ex prigionieri, dopo aver incontrato oltre 300 ex prigionieri civili. Secondo Anna, lei stessa minacciata di stupro durante la detenzione, la società ucraina segnata dalla guerra “non è pronta” ad ascoltare i loro racconti: “È complicato accettare chi è ancora più traumatizzato di noi”. In questo contesto, a suo avviso, gli unici casi che attirano l’attenzione “sono quelli sollevati dalla propaganda, non quelli veri”.
Il conflitto ucraino, infatti, si gioca sui giornali quasi quanto al fronte. Per vincere la guerra psicologica, i mezzi d’informazione dei due campi non esitano a brandire lo stupro come un’arma di guerra utilizzata dal nemico. I siti di informazione filorussi e ucraini riportano con grande abbondanza di dettagli casi di torture sessuali, stupri di gruppo e violenze su minori, immagini di pessimo gusto e false testimonianze d’appoggio debitamente pagate. Inoltre, una propaganda ampiamente diffusa sui social network, in particolare da un esercito di troll al servizio di Mosca, semina odio e scredita le parole delle vere vittime. Perché, al di là delle invenzioni, si nasconde una realtà che a volte non ha nulla da invidiare ai racconti propagandistici. E, se gli stupri denunciati sembrano più numerosi nei territori separatisti, anche dall’altra parte del fronte, nell’Ucraina controllata dalle forze di Kiev, avvengono atrocità altrettanto cruente.
Quando i soldati tornano dal fronte, in stato di shock e il più delle volte ubriachi, scendono nelle cantine a sfogarsi sui detenuti
Incontriamo Vadim (nome di fantasia), veterano di un battaglione filoucraino, il 7 ottobre 2016 nell’angolo buio di un pub deserto, non lontano dal centro della capitale ucraina. Sui trent’anni, magro, cranio rasato e carnagione pallida, beve nervosamente il suo caffellatte. Non è stato facile organizzare l’intervista: Vadim ha molta paura delle rappresaglie dei suoi ex commilitoni. A distanza di quasi tre anni, è ancora scosso dalle scene di violenza a cui ha assistito.
All’inizio dell’estate del 2014, sconvolto per l’annessione della Crimea da parte dei russi, Vadim raggiunge il fronte come volontario. Dopo un breve soggiorno presso un’unità “troppo violenta”, si arruola ad Aidar, uno dei principali battaglioni di volontari filoucraini che in quel momento costituiscono il nucleo della difesa ucraina, ben più dell’esercito regolare corrotto e dotato di pochi mezzi e di pochi uomini.
Arriva nei pressi di Ščastja, a pochi chilometri dalla linea del fronte. Qui la guerra c’è davvero. Vadim viene assegnato alla sorveglianza degli edifici della base – un’ex accademia di polizia – dove sono tenuti i prigionieri. Da lì osserva un movimento inquietante: “Quando i soldati tornano dal fronte, in stato di shock e il più delle volte ubriachi, spesso scendono nelle cantine a ‘sfogarsi’ sui detenuti”.
Un turno di guardia dopo l’altro, Vadim assiste impotente allo scatenarsi di queste violenze. Al di là della porta, sente le urla e il rumore dei colpi. Un giorno, viene assegnato da solo alla sorveglianza di un edificio nel quale, gli hanno detto, è rinchiusa una donna sospettata di essere una cecchina separatista perché “indossava un passamontagna” (nei conflitti dell’area postsovietica, quello della cecchina è un mito ricorrente, che spesso legittima l’uso dello stupro come forma di vendetta). Uno dei comandanti entra nell’edificio. Prima di raccontare il seguito, l’ex soldato si schiarisce la gola. “Qualche minuto dopo, ho sentito la donna gridare: ‘No, no! Non farlo!’”. Gli altri suoni che arrivano dall’interno lasciano poco spazio al dubbio. “Secondo me la stavano violentando”. Vadim la incrocia il giorno dopo e nota che “cammina a fatica”.
Consumato per due anni dal senso di colpa, ripensa a ciò che avrebbe dovuto fare per impedire ciò che ha sentito. Per riscattarsi, pensa che un giorno fornirà alcuni elementi chiave di questa storia – nomi, luoghi, particolari – a un eventuale tribunale internazionale. Una corte di giustizia che dovrà occuparsi non soltanto dei crimini commessi nei luoghi di detenzione. Nell’area di conflitto, in particolare ai checkpoint, le pressioni esercitate sulle donne prendono anche altre forme. Secondo diverse testimonianze da noi raccolte, ai posti di blocco i soldati propongono alle donne di passare in cambio di servizi sessuali.
A febbraio del 2017, un rapporto sulle violenze sessuali in Ucraina dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani riferisce in particolare lo stupro di gruppo subìto da un’abitante di Donetsk, città simbolo della ribellione filorussa, fermata a un posto di blocco dai membri del battaglione separatista Vostok per aver violato il coprifuoco: “È stata portata in macchina in quello che lei ritiene essere un posto di polizia occupato dal battaglione. Per tre ore è stata picchiata con una spranga di ferro e violentata da diversi uomini del battaglione”. La rilasceranno il giorno dopo.
Minorenni e soldati
Proprio vicino a Donetsk c’è la cittadina di Krasnohorivka, a tre chilometri dalle linee nemiche, nel territorio controllato dalle forze di Kiev. Vetri rotti, tetti sfondati, fori di proiettile: i segni della guerra sono visibili ovunque. Da lontano si sentono degli spari. Qui i soldati sono di casa.
È una mattina di metà ottobre del 2016 e un gruppo di volontari è venuto a portare un po’ di allegria agli adolescenti. Un po’ in disparte, la volontaria Elena Kosinova ammette a mezza bocca che in città le donne sono costrette a prostituirsi con i soldati. Si tratta in particolare di “madri abbandonate, dalla vita ormai dura” o di “figlie o donne di ‘cattiva famiglia’, che non cercano necessariamente soldi, ma cibo”. Elena si affretta tuttavia a precisare che questa prostituzione indotta dalla miseria si svolge “senza violenza”.
Nei pressi di un’altra scuola della cittadina incontriamo Genia, 16 anni. Aspirando profonde boccate dalla sua sigaretta, cappuccio rosa sui capelli ossigenati e trucco pesante, nega di essere una di “quelle ragazze che vanno a trovare i soldati”. Per indicare gli scambi sessuali, a pagamento o no, parla di “false storie d’amore” tra i militari e le ragazze del posto, ma “non vuole essere confusa con questo”. Tra un tiro e l’altro, alla fine si lascia sfuggire che almeno tre sue amiche “frequentano” dei soldati. Genia aggiunge che ha sentito parlare di una “ventina” di altre ragazze della sua età che sono andate ai posti di blocco per “incontrare” questi soldati costantemente alla ricerca di “ragazze minorenni”.
In un parco di Kiev incontriamo Ilja Bogdanov, un ex membro dell’Fsb (il servizio segreto russo) passato al nemico ed entrato nel gruppo paramilitare ultranazionalista Pravyi Sektor (Settore destro). A suo avviso, queste derive dipendono dall’alcolismo diffuso al fronte. Si tratta di un’area che l’ex soldato definisce senza peli sulla lingua (in contrasto con il suo aspetto da bravo ragazzo) “pattumiera biologica”, dove ragazze di tredici o quattordici anni bevono con i soldati. E finiscono spesso per “scopare con loro”. Anche se, aggiunge, Ilya, “sono ancora delle bambine”. A sua conoscenza, “i comandanti non dicevano nulla”.
Qui l’unico modo per evitare il rischio di essere stuprata o aggredita sessualmente è non nascere donna
Dal lato ucraino, nelle zone vicine al fronte, nel 2016 soltanto il 30 per cento delle forze di polizia era ancora operativo, secondo il rapporto In search of justice, pubblicato nel 2016 dal Centro per le libertà civili di Kiev. Ma queste ragazze di Krasnohorivka, come la maggior parte delle vittime di violenze sessuali in Ucraina, non pensano di sporgere denuncia: la paura delle rappresaglie e la vergogna hanno la meglio. Le sopravvissute agli stupri erano messe a tacere anche prima dell’inizio del conflitto. “Qui c’è una forte cultura di colpevolizzazione delle vittime: ti dicono che è stata colpa tua, che non dovevi vestirti in quel modo, che non dovevi bere troppo”, accusa Nastya Melnichenko. Nastya, una trentenne che a sua volta ha subìto un’aggressione sessuale alcuni anni fa, nel 2016 ha lanciato sui social network ucraini e russi la campagna #nonhopauradidirlo, per incoraggiare le vittime a parlare. Eppure, la sua constatazione è disperata: “Qui l’unico modo per evitare il rischio di essere stuprata o aggredita sessualmente è non nascere donna”.
Quanto a chi trova il coraggio di rivolgersi alla polizia, presentare la denuncia si trasforma spesso in un incubo. Non soltanto la polizia stessa si rende a volte colpevole di violenze sessuali, ma succede anche che gli ufficiali o i soldati accusati esercitino delle pressioni affinché le vittime ritirino le denunce.
Dal lato separatista, al commissariato nessuno ha fatto nulla per incoraggiare Lena, la giornalista ucraina di cui abbiamo parlato all’inizio, a confidarsi. Benché abbia “fatto appello a tutte le sue forze per descrivere quello che era successo”, viene rimproverata dal luogotenente con un sorriso sprezzante: “Non possiamo fare niente per te”. Quando chiede un telefono per contattare i suoi parenti, ottiene un rifiuto e l’indicazione dell’uscita. Succedeva a Donetsk nella primavera del 2014. Da allora, in queste zone controllate ufficialmente dai ribelli (e ufficiosamente da Mosca), sono stati rilevati ben pochi cambiamenti. Per le vittime di violenze sessuali, la speranza di ottenere giustizia sembra sempre molto debole.
Nelle Repubbliche popolari autoproclamate di Donetsk (Rpd) e di Luhansk (Rpl), le strutture ucraine non sono più operative e hanno progressivamente lasciato il posto a una giustizia parallela, carente di personale, sottofinanziata e opaca. Un caos che, per alcuni attivisti, spiega il fatto che queste violenze, benché perpetrate da entrambi i lati della linea del fronte, sarebbero state più numerose nell’area separatista. “Il territorio è controllato soltanto dalle armi e dai criminali, mentre in Ucraina è comunque rimasto uno stato, una magistratura. Laggiù le torture, violenze sessuali comprese, sono state parte di una politica mirante a minacciare la popolazione”, spiega Volodymyr Ščerbačenko, coordinatore del rapporto Dolore silenzioso. La nostra domanda di entrare in Rpd e in Rpl ai fini di questa inchiesta è stata respinta senza spiegazioni ulteriori.
Circostanze attenuanti
E nelle zone controllate da Kiev? L’impunità è minore, ma il potere non è realmente in grado di offrire concrete prospettive di giustizia alle sopravvissute. Soprattutto quando gli aguzzini sono i suoi uomini. È il caso dello stupratore di Anna, diciassette anni.
La ragazza, carnagione cristallina e lunghi capelli biondi, si sente tradita. Ci incontriamo al riparo dalla pioggia in una macchina parcheggiata davanti alla sua residenza studentesca, nella periferia industriale di Kiev. Anna continua a non capire la sentenza pronunciata da un giudice di Ivankiv, una città nella regione di Kiev. Due anni di libertà vigilata e cento euro di multa per uno stupro con sodomia. Poiché per la legge ucraina la sodomia non è considerata uno stupro, la pena prevista dal codice penale è da 3 a 7 anni di carcere, contro quella da 7 a 12 anni per uno stupro su minore. L’uomo in questione, un militare appartenente a un’unità di protezione delle frontiere, all’epoca dei fatti si trovava in caserma a Mlačivka (il paese d’origine di Anna, un centinaio di chilometri a nord di Kiev) ma aveva partecipato ai combattimenti nell’est. Nel verdetto del 10 giugno 2016, tra le circostanze attenuanti si legge: “Partecipazione alle operazioni antiterroristiche nell’Est” (il nome dato da Kiev per indicare il conflitto nell’est). Una decisione in forma di ius primae noctis accordato a uomini che Kiev considera eroi.
“Lo spirito nazionalista è molto forte in Ucraina”, afferma Simon Papuashvili, coordinatore di progetto della ong Partenariato internazionale per i diritti umani. “In situazioni come questa, in cui il paese è attaccato da una nazione vicina, quelli che difendono la patria sono visti come eroi”.
La procura è ricorsa in appello, ma la decisione finale ha confermato i due anni di libertà vigilata, mentre la multa è passata a 3.500 euro di danni. La famiglia di Anna vorrebbe trovare la forza per contestare anche questa decisione. “Siamo esausti, mia figlia non ne può più di questa vicenda giudiziaria”, ci confida la madre all’inizio di marzo. Interpellato il 13 ottobre 2016, il giudice che ha pronunciato la controversa sentenza non ha voluto commentare la sua decisione.
E le autorità di Kiev – che a febbraio del 2016 hanno comunque adottato un piano d’azione nazionale per rafforzare la protezione e la tutela delle donne nel conflitto – non sembrano più severe quando i crimini avvengono nella zona di conflitto. Le statistiche fornite nel novembre 2016 dall’ufficio del procuratore generale parlano da sole: sono state avviate soltanto sette inchieste per violenze sessuali legate al conflitto, tre delle quali poi chiuse per mancanza di prove. Da parte sua, la coalizione di ong Giustizia per la pace nel Donbass ha identificato più di 200 vittime.
Sollecitato in questo senso, l’ufficio del procuratore generale ha confermato che il 7 febbraio 2017 è stata avviata una nuova inchiesta preliminare, in particolare per stupro, nei confronti di “un soldato dell’unità C”.
Potrebbe darsi che le autorità ucraine non siano interessate a indagare ulteriormente? In realtà, sembra che siano coinvolti anche i loro servizi segreti. È in ogni caso quanto risulta dalla testimonianza da noi raccolta di un ex prigioniero passato dalle celle dell’Sbu (il servizio di informazioni ucraino). Il recente rapporto dell’Onu segnala inoltre che violenze sessuali sono state “spesso perpetrate contro individui, soprattutto uomini, detenuti dai servizi di sicurezza ucraini (Sbu) e dai battaglioni di volontari”. Dall’altro lato della linea del fronte, i servizi segreti – russi in particolare – non sono da meno, come ci ha confermato un ex prigioniero dei separatisti evocando la presenza di “membri dell’Fsb” nel comando di questo luogo in cui “avvenivano violenze sessuali” e si “sfruttavano prostitute”.
Le probabilità di arrivare a un processo sono molto basse, tanto più che i tempi sono estremamente lunghi
In questa sorta di deserto giudiziario, si intravede un unico spiraglio di ottimismo: quello della giustizia internazionale. È la speranza di Alisa, giovane regista di documentari violentata a Kramatorsk tre anni fa da un uomo che si è presentato come un ex ufficiale russo, da noi incontrata il 9 ottobre scorso a Kiev, nel suo appartamento.
Alisa, con un coraggio raro nell’Ucraina di oggi, vuole che tutti sappiano. La giovane donna potrebbe rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu). “Se lo faccio, non è per vendetta personale. È piuttosto per tutte le altre ragazze come me”, assicura. Sui tremila procedimenti per violazioni dei diritti umani attualmente in corso presso la Cedu per l’Ucraina, nessuno riguarda le violenze sessuali. Alisa potrebbe essere la prima. La Corte non ha il potere di arrestare i colpevoli, ma le vittime possono ottenere un risarcimento. La Corte penale internazionale (Cpi) è l’unica che possa condannare dei criminali di guerra quando non possono essere giudicati nei rispettivi paesi. Alisa giura che un grande processo internazionale “è l’unica risorsa”.
Che sia l’unica non c’è dubbio, visto lo stato della giustizia in Ucraina e l’impossibilità per le autorità di accedere alla zone sotto il controllo dei separatisti. Che poi sia anche efficace resta da verificare. Anche se l’Ucraina non è ancora firmataria dello Statuto di Roma, la Cpi ha comunque la competenza per indagare sui crimini all’interno del paese, inclusi i territori separatisti, indipendentemente dalla nazionalità dei presunti responsabili. In questa prospettiva, diversi attivisti stanno raccogliendo da mesi le testimonianze di vittime di violenze sessuali e hanno cominciato a trasmetterle alla Cpi. Quest’ultima, in una mail datata 9 marzo 2017, afferma che in questa fase non è ancora in grado di “arrivare a conclusioni basate sui fatti per quanto riguarda il caso che gli è stato riferito”.
Le probabilità di arrivare a un processo sono molto basse, tanto più che i tempi sono estremamente lunghi – circa una decina d’anni come minimo fino a un eventuale processo. “Ci vorrà molto tempo, forse uno o due decenni. Se tutto va bene, potremmo ottenere un mandato d’arresto contro Vladimir Putin per crimini di guerra e crimini contro l’umanità”, afferma con entusiasmo Simon Papuashvili, che ha già fatto arrivare alla Corte circa 300 casi di torture (non di violenze sessuali) nel quadro del conflitto, e ne sta preparando altri 400. “Ma il problema è che la Russia, in quanto stato che non aderisce alla Cpi, non è obbligata a cooperare con la Corte. Se dei suoi cittadini riceveranno un mandato d’arresto, la Russia probabilmente rifiuterà di consegnarli alla Cpi, che non avrà alcun diritto d’intervenire”.
Secondo Olexandr Pavlichenko, coautore del rapporto Dolore silenzioso, la Russia in ogni caso starebbe già facendo pulizia: sono sempre più numerosi i signori della guerra che scompaiono in “misteriosi omicidi”, a suo avviso “malcelate manovre della Russia per ripulire la memoria”. Teme che entro uno o due anni questi criminali saranno spariti, “e con loro qualunque possibilità di ottenere la verità”.
Alisa non si scoraggia e ha deciso di agire. Per rompere il silenzio sulla violenza, ha allestito uno spettacolo teatrale che è stato messo in scena due volte in Ucraina e una a Berlino. Lei stessa interpreta la propria prigionia, stupro compreso, arrivando a denudarsi sul palco. L’esperienza è intensa, non solo per lei: “Alcuni spettatori piangono mentre recitiamo. A lungo andare, la violenza della nostra guerra diventa statistica. Qui la provano in diretta”.
(Traduzione di Cristina Biasini)
Questa inchiesta, scritta in collaborazione con Maria Varenikova, fa parte di una serie in sei parti del progetto Zero Impunity, che documenta e denuncia l’impunità di cui godono i responsabili di violenze sessuali in contesti di guerra. Il progetto è a cura di Nicolas Blies, Stéphane Hueber-Blies e Marion Guth (a_Bahn), un gruppo di “documentaristi attivisti” che attraverso il loro sito promuovono anche una mobilitazione online per chiedere alle autorità di dotarsi degli strumenti necessari a combattere questo fenomeno e a perseguire i colpevoli.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it