Il terreno è piccolo, non supera l’ettaro e mezzo. Gli alti fusti, ognuno con il suo casco di frutti avvolto in una sacca di plastica, proteggono dal sole battente. Gustavo Gandini affonda le mani nel terreno e mostra il brulicare della vita nei suoi dettagli più piccoli e meno attraenti: “Guardate questo lombrico, questo lungo verme peloso!”.
Una gallina razzola a poca distanza, colibrì becchettano tra le foglie. “In un campo coltivato convenzionalmente, vedreste solo morte e desolazione. Con il biologico, invece, la natura vive e si riproduce in un ciclo integrato”. Siamo in una piantagione di banani vicino a Mao, nel nord della Repubblica Dominicana. Sono venuto qui insieme a una piccola delegazione di giornalisti europei per vedere l’origine della filiera della banana. Gandini, agronomo colombiano di remote origini italiane, è il direttore tecnico di Banelino, un consorzio di 140 piccoli produttori che in quest’area controllano 1.500 ettari. Tutti rigorosamente biologici e parte del commercio equo e solidale.
La Repubblica Dominicana si è specializzata negli ultimi anni in questo settore: il 70 per cento delle banane prodotte qui è biologico, circa il 40 per cento è inserito nei circuiti del fair trade. Un terzo delle banane del circuito fair trade consumate in Italia arriva da qui. Una nicchia di mercato che ha permesso al piccolo stato caraibico di ritagliarsi un ruolo accanto ai grandi esportatori mondiali: l’Ecuador, la Colombia, la Costa Rica e le varie altre “repubbliche delle banane” dell’America Centrale.
I caschi che penzolano in abbondanza dagli alberi sono tutti destinati ai mercati esteri. Da questa piccola piantagione nel mezzo della lussureggiante campagna tropicale i frutti raggiungeranno, dopo un lungo viaggio via mare in container frigorifero, i supermercati di buona parte dell’Europa e del Nordamerica.
Le piante sembrano tutte identiche. E di fatto lo sono. Perché il 99 per cento delle banane commercializzate in occidente appartiene a un’unica varietà, nota con il nome di Cavendish. Come tutte le banane commestibili, la Cavendish è il frutto di un accidente biologico. Nata da un errore genetico, è sprovvista di semi e si riproduce per talea. In pratica, come ha osservato il giornalista scientifico britannico Fred Pearce, “nonostante il suo indubbio aspetto fallico, non fa sesso da millenni”.
Gandini mostra il meccanismo della riproduzione asessuata direttamente sul campo: “Mentre fa il frutto, ogni pianta ne genera altre, che si sviluppano dal suo fusto. Quando il casco giunge al giusto grado di maturazione, dopo circa cinque settimane, lo tagliamo. A quel punto, eliminiamo la pianta madre e facciamo crescere uno degli arbusti che questa ha generato. La figlia crescerà, darà i frutti e diventerà madre a sua volta, in un ciclo che continua così da centinaia di anni”.
Questo tipo di riproduzione rende i banani estremamente fragili. Perché tutte le piante sono di fatto cloni l’una dell’altra. “Il che le espone pesantemente al rischio di epidemie”, sottolinea Gandini. “Quando arriva una virosi, spazza via intere piantagioni, visto che i banani hanno tutti lo stesso patrimonio genetico”.
Lo scenario non è fantascientifico: un virus, chiamato Tropical race 4 (Tr4), ha già decimato gran parte delle piante nei paesi asiatici, dalla Malesia alle Filippine, colpendo anche l’Africa. Se riuscirà ad arrivare sul continente americano, queste piantagioni saranno ridotte in poltiglia e l’industria esportatrice di banane si troverà in grandi ambasce.
Molti esperti ritengono che il conto alla rovescia per l’ora x sia già cominciato e che non si tratti tanto di “se” ma di “quando” questa cosa avverrà. E non si tratterebbe neanche della prima volta: già negli anni cinquanta, la varietà allora commercializzata al livello mondiale, chiamata Gros Michel, si è estinta a causa di una malattia ed è stata sostituita dalla Cavendish, più corta e meno saporita, diventata la nuova regina dei supermercati. La cattiva notizia è che a oggi non esiste alcun erede designato: quando la virosi attraverserà l’oceano, il trono rimarrà vuoto e tutti noi rimarremo senza banane.
Al momento, però, continuiamo a mangiarne e in grandi quantità. Ogni anno vengono commercializzate circa 17 milioni di tonnellate di banane nel mondo. Il frutto ha alcune particolarità che lo rendono imbattibile: cresce tutto l’anno. Ha un alto contenuto di vitamine. È apprezzato a tutte le età. E mangiarlo rende perfino felici: merito della polpa che contiene triptofano, sostanza che l’organismo trasforma in serotonina, migliorando l’umore e l’equilibrio nervoso.
Primo produttore mondiale
Nella Repubblica Dominicana, fino al 1995, non si producevano banane da esportazione. Oggi, il paese caraibico è il primo produttore mondiale di banane biologiche, dirette principalmente verso l’Europa (circa la metà entra nel Regno Unito). Il boom bananiero interessa soprattutto la zona settentrionale del paese, nelle province di Valverde e Montecristi, al confine con la vicina Haiti. Qui la produzione è divisa tra piccoli produttori e grandi piantagioni.
Una di queste ultime è Plantaciones del norte, un’azienda produttrice guidata da un imprenditore italiano, Edoardo Galli, tra i primi a lanciarsi nella banana biologica e nel commercio equo. “Abbiamo cominciato da zero. All’inizio abbiamo sperimentato sul campo, perché non esistevano protocolli. Nessuno di noi sapeva come si faceva”, racconta Marino Trastullo, direttore generale dell’azienda.
Il capo dice che dobbiamo saper essere flessibili. A volte mi sembra di dover fare il contorsionista
Il dirigente, genovese d’origine ma ormai dominicano d’adozione, racconta le difficoltà e le sfide del lavoro, le cifre di crescita e i danni subiti con gli ultimi uragani. Facendo il giro della piantagione, mostra il sistema di carrucole per il trasporto dei caschi, i lavatoi dove le banane sono selezionate prima dell’inscatolamento, le varie casse con i simboli dei supermercati occidentali dove saranno messe in vendita. “Ogni cliente ha richieste diverse, da paese a paese. Il mio capo dice che dobbiamo saper essere flessibili. A volte mi sembra di dover fare il contorsionista”, dice ridendo.
Le banane prodotte qui entrano nel circuito del commercio equo: il che vuol dire che ogni cassa di frutti riceve un premio addizionale di un dollaro da usare in progetti sociali o di sviluppo per la comunità o in iniziative a favore dei lavoratori.
A questo scopo, in ogni azienda che fa parte del commercio equo sono state create delle organizzazioni interne che devono decidere come impiegare questo denaro. In una stanzetta ai lati della piantagione, un gruppo di iscritti all’Asotrapam, l’associazione dei lavoratori, è riunito per illustrarci i benefici materiali ottenuti grazie al dollaro aggiuntivo.
Una madre single ricorda come il premio le abbia permesso di pagarsi gli studi. Un uomo racconta come abbia potuto ottenere i documenti d’identità (per i quali il consolato di Haiti chiede il versamento di circa 200 dollari) anche se in questo caso si è trattato di un prestito da parte dell’azienda, che lui dovrà poi restituire.
La scena si svolge sotto gli occhi attenti del direttore del personale, uno spagnolo un po’ spigoloso che a tratti interviene per dare l’imbeccata ai lavoratori. L’atmosfera sembra tutt’altro che rilassata. La stessa disposizione delle persone presenti – i cinque operai dietro un tavolo fronteggiati dai loro capi e dai giornalisti – somiglia più a quella di un interrogatorio che di un’intervista.
Dentro un universo parallelo
Per parlare un po’ più liberamente delle condizioni nelle piantagioni, bisogna spostarsi a qualche chilometro di distanza. Ci lasciamo alle spalle una via asfaltata, imbocchiamo una stradina che si fa sempre più accidentata e sbarchiamo in quello che somiglia a un universo parallelo: il Batey 3 di Boca de Mao ospita circa duemila persone, al 95 per cento immigrati haitiani.
Nati all’epoca dello sviluppo della canna da zucchero, negli anni trenta, quando il governo dominicano siglò un accordo con quello haitiano per l’afflusso di manodopera dal paese vicino, i batey sono tecnicamente insediamenti per i lavoratori.
Per tenere i cosiddetti braceros vicini alle piantagioni, le compagnie avevano costruito questi villaggi di baracche informali. All’inizio si trattava di soluzioni abitative per operai stagionali, che alla fine della raccolta dovevano tornare a casa al di là della frontiera. Ma pian piano, le popolazioni sono diventate stanziali, si sono create famiglie e gli insediamenti si sono istituzionalizzati.
Oggi i batey sono dei quartieri ghetto di immigrati haitiani, per lo più lontani dai centri abitati. Molti degli abitanti non hanno documenti: anche se nati nella Repubblica Dominicana, non hanno diritto alla cittadinanza. O l’hanno persa: nel 2013 una sentenza molto discussa della corte costituzionale ha privato della nazionalità dominicana i discendenti di immigrati haitiani nati sul territorio dominicano dal 1929, creando da un giorno all’altro un esercito di apolidi.
Il Batey 3 di Boca de Mao si sviluppa su alcune stradine fangose e maleodoranti ai cui lati scorrono liquami. Le casupole di legno e lamiera sono accatastate le une sulle altre; di tanto in tanto spunta qualche negozio di beni di prima necessità, insieme all’immancabile e affollatissima chiesa pentecostale.
È una domenica pomeriggio di marzo e l’insediamento brulica di attività. Gabriel Saintilma ha una camicia stirata di fresco, un gilet scuro e un paio di occhiali da sole che non si leva mai, neanche quando ci sediamo a parlare con lui all’interno di una delle baracche.
Nato nel 1998 nel nord di Haiti, Gabriel è venuto nella Repubblica Dominicana a sette anni insieme al padre e ha cominciato presto a lavorare nei campi. Quando il padre è morto, è stato preso in carico da una famiglia di vicini ed è cresciuto con loro. Oggi lavora in una piantagione non lontana, che raggiunge la mattina in bicicletta.
Guadagna 280 pesos, poco più di cinque euro, per una giornata di otto ore. A fine mese, riesce a mettere insieme circa settemila pesos (140 euro) che in parte invia alla madre e alla sorella minore rimaste ad Haiti. Ogni tanto va a trovarle. Nonostante viva da 12 anni nella Repubblica Dominicana, è ancora uno straniero. Per anni è rimasto senza documenti e solo recentemente è riuscito a beneficiare di una regolarizzazione lanciata dal governo – l’aiuto della sua famiglia d’adozione dominicana è stato essenziale.
Gabriel vive in una stanza con le pareti di legno senza pavimento, il cui unico arredo è costituito da un materasso e da un tavolino su cui spiccano una Bibbia e un libro d’inglese per un corso che segue in città la domenica mattina, unico giorno in cui non lavora nei campi. All’inizio, per pudore, non me la vuole mostrare e preferisce portarmi nella “casa” della sua seconda famiglia, una delle baracche più arredate di tutto l’insediamento. Ci sediamo al buio in una stanza in cui ci sono una grande tv, un mobiletto pieno di foto, un divano. Una parete di legno divide la stanza dalla cucina. C’è l’acqua corrente, ma l’elettricità arriva a singhiozzo: in tutto il batey viene sospesa tra le 13 e le 16, e tra le 20 e le 8 del giorno dopo.
Il suo “padre adottivo”, Daniel Bera, è un dominicano sulla cinquantina dal sorriso allegro, anche lui impiegato nelle piantagioni. “Ma io sono un’eccezione. Questo lavoro lo fanno solo gli haitiani”. Daniel è un immigrato interno, originario di un’altra zona del paese. Si è spostato dopo aver incontrato la moglie e da un paio di decenni lavora nelle piantagioni di banane. Guadagna quanto Gabriel, 280 pesos al giorno. Il lavoro non gli dispiace, “ma è pagato troppo poco”.
Daniel, come il suo figlioccio Gabriel, nulla sa del commercio equo: le piantagioni in cui lavorano non fanno parte del circuito del fair trade. Né sa a quanto sono vendute ai clienti europei le banane che loro raccolgono. Sa solo che il suo lavoro è sottopagato e non gli permette di condurre una vita dignitosa, ma lo costringe a vivere in una baracca senza servizi in cui l’elettricità c’è solo nelle ore di punta.
Il sogno di un sindacato
Tutta l’industria della banana nella Repubblica Dominicana si basa su manodopera costituita da immigrati. Sono gli haitiani a lavorare nelle piantagioni per salari che i dominicani in genere non accettano. “Secondo la legge, nei campi dovrebbe esserci manodopera nazionale all’80 per cento e straniera al 20 per cento. Nella realtà è il contrario”, sottolinea Eligio Almonte. Questo signore dall’apparenza un po’ dimessa si sta impegnando da alcuni anni per realizzare un’impresa alquanto impervia: avviare la costituzione di un sindacato di raccoglitori di banane. Istituzione inesistente al momento, che si scontra con le resistenze di molte aziende e con l’indifferenza del governo. “Esistono le associazioni interne alle aziende, che spesso ci sono solo perché lo richiede la certificazione fair trade. E non sempre fanno gli interessi dei lavoratori”.
La caratteristica del Sintranor, così si chiama l’unione sindacale che Almonte e altri si stanno sforzando di formare, è che per la prima volta mette insieme lavoratori dominicani e haitiani. Per il momento ha circa 300 iscritti. Non escono ancora troppo allo scoperto, per timore di ritorsioni da parte delle aziende. Si tratta quindi di una sorta di gruppo clandestino: non ha una sede né è riconosciuta al livello nazionale, anche se si sono moltiplicati nell’ultimo periodo i contatti con i sindacati di Santo Domingo. Per incontrare Almonte e gli altri componenti del Sintranor, ci diamo appuntamento in un grande capannone in muratura, uno spazio normalmente usato per feste e cerimonie. Non c’è elettricità. Mentre cala la sera, vengono portate all’interno dell’edificio tre motociclette con i fari accesi per illuminare la riunione. Nugoli di zanzare volteggiano fameliche sulle nostre teste.
Nonostante le condizioni precarie, una quarantina di appartenenti al sindacato rimangono seduti in circolo nella semioscurità per un paio d’ore. Si presentano uno a uno, raccontano le loro storie, i problemi che hanno con il lavoro, le difficoltà di tirare avanti. Tutti lamentano i bassi salari, lo sfruttamento, l’incapacità di negoziare prezzi migliori. I dominicani spesso hanno paghe più alte, perché hanno posti di maggiore responsabilità. Gli haitiani devono accontentarsi del salario minimo, che è di 267 pesos al giorno (cinque euro). Alcuni guadagnano meno, anche 250 pesos. “Non ce la facciamo, ma non abbiamo alternativa”, dicono tutti.
L’incontro è moderato da Almonte e da un altro signore robusto, vestito con una camicia rossa elegantissima, che tutti chiamano Tony. Diohny Desanges, questo il suo nome di battesimo, è il presidente dell’Associazione dei lavoratori haitiani di Mao e ha 37 anni. Vive nella Repubblica Dominicana dal 1994, da quando cioè ne aveva 14. È arrivato, come molti suoi connazionali, attraversando la frontiera illegalmente e poi ha cercato un lavoro. Ne ha cambiati molti e ancora oggi fa qualche giornata nelle piantagioni.
Ma la maggior parte del tempo lo dedica alla sua attività nell’associazione, che svolge a titolo volontario. La sua vocazione è figlia di una tragedia scampata: qualche anno fa ha avuto un incidente in moto ed è finito in ospedale in coma. Dopo una settimana tra la vita e la morte, si è svegliato improvvisamente senza provare più alcun dolore. Unico segno dell’incidente, un bozzo ancora ben visibile su un lato della fronte. Tony, che è molto religioso, ha interpretato questa guarigione improvvisa come un segno divino. Da allora, si dedica anima e corpo agli altri.
Quando parla ha una voce sottilissima, a tratti impercettibile, che non sembra uscire dal suo torace imponente. Eppure, appena si rivolge in creolo agli altri partecipanti, cala sulla riunione un silenzio rispettoso. Tony è il leader indiscusso, che tutti ascoltano e a cui tutti fanno riferimento in caso di problemi. Lui aiuta i suoi connazionali a ottenere i documenti, s’impegna nelle attività del sindacato, cerca insomma di favorire la nascita di una società civile capace di avanzare rivendicazioni.
Il sistema delle piantagioni si basa sul lavoro sottopagato degli immigrati haitiani
Compito non facile in un contesto in cui gli haitiani sono tradizionalmente sfruttati, discriminati e spesso senza documenti, anche perché il loro paese d’origine – costantemente sull’orlo del collasso – non glieli rilascia.
Tony si considera un sopravvissuto e accoglie ogni nuovo giorno come un dono. Vive in una baracca in un altro batey, e insiste per farmela vedere. La casupola di legno, che condivide con un connazionale, è perfino più essenziale di quella di Gabriel: un tetto di ferro ondulato, due stanze minuscole e un altro loculo adibito a bagno. Nella sua camera c’è solo un materasso con qualche coperta sopra. Entrando, dobbiamo farci luce con un accendino, perché non c’è luce elettrica. “Ogni tanto torna”, puntualizza, “ma senza regolarità”.
Quando parla delle condizioni di lavoro, mantiene sempre quel suo tono calmo, un po’ monocorde. “Senza di noi non sarebbe possibile raccogliere ed esportare le banane. Il sistema delle piantagioni si basa sul lavoro sottopagato degli immigrati haitiani”. Ma, nonostante tutto, conserva la forza dell’ottimismo. “Le cose cambieranno, stanno già cambiando. Grazie all’aiuto della divina provvidenza”.
Meno fiducioso nell’intervento del buon Dio è invece chi deve predicarne il verbo. Padre Regino Martínez è un gesuita sanguigno, dai toni diretti, che da anni attacca frontalmente il governo dominicano e gli imprenditori delle banane. “Nelle piantagioni c’è un sistema di schiavitù legalizzata. Gli operai haitiani non hanno modo di negoziare salari più alti e vivono nella miseria più assoluta. L’abbondanza di manodopera permette lo sfruttamento più assoluto”. Padre Regino ha quasi ottant’anni, ma ha la forza e la veemenza di un ventenne. Da più di quarant’anni vive a Dajabón, proprio al confine con Haiti, che definisce il “luogo più disastrato di tutto lo stato”.
Salari da fame
Da questo suo osservatorio speciale, vede ogni giorno arrivare gli immigrati haitiani con i loro vestiti cenciosi e assiste alle frequenti deportazioni organizzate dalle autorità dominicane. Coordinatore dell’organizzazione Solidaridad fronteriza, si batte per i diritti dei cittadini haitiani che passano di lì. “Non posso fare altrimenti. Il mio lavoro è figlio dell’urgenza della storia”. Quando parla delle piantagioni di banane, le paragona ai campi di cotone in cui venivano impiegati gli schiavi neri nel sud degli Stati Uniti. Per padre Regino, che è un radicale, il “commercio equo” è un modo per pulire la coscienza ai consumatori europei e vendere più banane. “Nonostante il premio, i lavoratori ricevono salari da fame e continuano a vivere nella miseria”.
“Il tema dei salari bassi esiste, è innegabile”, ammette Marike de Peña, direttrice del consorzio Banelino. Arrivata in Repubblica Dominicana più di trent’anni fa, questa produttrice olandese ha partecipato fin dall’inizio al processo di sviluppo del commercio equo nel paese ed è stata anche presidente di Fairtrade international. Riconosce che uno dei problemi principali è legato alla retribuzione dei lavoratori, su cui pesa il fatto che la manodopera nelle piantagioni è costituita da immigrati haitiani più ricattabili. “Oggi un lavoratore guadagna settemila pesos al mese (circa 140 euro). È troppo poco, molto al di sotto di quello che noi definiamo salario degno. Il nostro obiettivo sul medio periodo è di raddoppiarlo”.
Con i suoi toni un po’ estremi, padre Regino pone una questione non secondaria: ha senso parlare di commercio equo e solidale quando nelle piantagioni i lavoratori sono pagati cinque dollari al giorno? Il dollaro aggiuntivo per ogni cassa di banane rappresenta una cifra importante alla fine dell’anno. Secondo le regole di Fairtrade international, questo deve essere investito in progetti sociali o di rilancio della produzione, come risultato di una consultazione democratica all’interno dell’azienda; nella Repubblica Dominicana si è riusciti ad arrivare a un accordo per cui una parte può essere versata in contanti ai lavoratori come integrazione al salario.
Ma che potere hanno i lavoratori haitiani nell’influenzare queste decisioni? “Nessuno”, risponde padre Regino, “le associazioni all’interno delle aziende sono una specie di sindacati gialli controllati dai dominicani”.
“Stiamo cercando di portare avanti un processo, che in alcuni casi funziona, in altri va più a rilento”, ribatte de Peña, sottolineando che è stata Fairtrade international a fare pressioni sul governo e a facilitare la regolarizzazione di migliaia di lavoratori haitiani, nonché ad aiutare la formazione del Sintranor. “Il problema però è duplice: in alcuni casi c’è la resistenza dei datori di lavoro a migliorare le condizioni, ma ci sono anche i vincoli imposti dai prezzi delle banane sui mercati mondiali”.
Guerra dei prezzi
Oggi una cassa di banane da 18 chili è venduta a 7,5 dollari, che salgono a 9,6 nel caso di banane biologiche e fair trade. La banana, nonostante le gigantesche distanze che deve coprire, le difficoltà della produzione, i rischi legati alle virosi, è ormai diventata la merce per eccellenza.
Nel Regno Unito, primo mercato di destinazione delle banane biologiche e fair trade provenienti dalla Repubblica Dominicana, le catene di supermercati hanno lanciato negli ultimi anni una vera e propria guerra dei prezzi al ribasso per accaparrarsi consumatori. I grandi gruppi britannici, come Asda, Sainsbury’s, Morrison e Tesco, le vendono a 0,72 sterline al chilo (0,85 euro). “Proponendo le banane a prezzi insolitamente bassi, la grande distribuzione sta mandando un messaggio sbagliato ai consumatori”, denuncia Alistair Smith, fondatore dell’organizzazione non governativa Banana link, che si batte per rendere sostenibile il commercio dei frutti tropicali, in particolare la banana e l’ananas. “A quei prezzi c’è poco margine per migliorare veramente le condizioni dei piccoli produttori e dei lavoratori, nonché le condizioni ambientali per una produzione davvero sostenibile”.
Le potenzialità di crescita del commercio equo sono notevoli: oggi nel Regno Unito, una banana su quattro è fair trade, in Svezia una su due, in Svizzera una su cinque. “Questi dati mostrano che i consumatori sono orientati verso un acquisto consapevole. La guerra dei prezzi non ha alcun senso, perché nessuno protesterebbe se le banane costassero di più”, assicura Smith.
E in Italia? Nel nostro paese arrivano ogni anno undicimila tonnellate di banane certificate Fairtrade, un terzo delle quali dalla Repubblica Dominicana (le altre provengono da Perù ed Ecuador). I numeri sono meno rilevanti rispetto ad altri mercati europei, ma registrano comunque una crescita annua intorno all’8 per cento. Anche se il prezzo al consumatore non è mai sceso ai livelli britannici, il problema dello sfruttamento degli immigrati haitiani esiste comunque. “Siamo consapevoli della criticità relativa alle condizioni dei lavoratori nelle piantagioni della Repubblica Dominicana”, afferma al telefono Thomas Zulian, responsabile del settore banane per Fairtrade Italia.
Il rappresentante dell’ente di certificazione riconosce che i salari sono bassi e racconta come nel 2015 le aziende del settore abbiano respinto le sollecitazioni del Fairtrade a lavorare insieme ai sindacati per aumentarli. “Agiamo sul campo, anche sostenendo i sindacati che stanno nascendo. Noi non siamo un governo che può imporre regole, siamo un ente regolatore che propone delle linee guida. Il nostro obiettivo è attivare nei vari paesi un processo per migliorare le condizioni sul terreno. Questo processo si rivela più virtuoso in alcuni contesti, più lento purtroppo in altri, come quello dominicano”.
Quest’inchiesta è stata realizzata durante una missione sul campo ad Haiti e in Repubblica Dominicana nell’ambito della campagna Make fruit fair, organizzata da 15 organizzazioni non governative europee e quattro non europee, tra cui l’italiana Gvc, e cofinanziata dall’Unione europea.
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