C’è un fotogramma alla fine del film Vittoria, diretto da Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman, che evoca tutto il significato più profondo dell’adozione. Il film, presentato alla scorsa mostra del cinema di Venezia e da poco in sala, racconta la storia di Jasmine, una donna di Torre Annunziata decisa ad adottare una bambina, nonostante abbia già tre figli: un desiderio irrazionale e dettato addirittura da un sogno. Quando, alla fine del lungometraggio, il marito, inizialmente contrario all’adozione, scatta in piedi per prendere tra le braccia Vittoria, una bambina affetta da una patologia cognitiva, tutti i dubbi, le tensioni, la fatica per le peripezie burocratiche, si sciolgono in quell’abbraccio. Un gesto che racchiude il senso ultimo dell’adottare: quello dell’accoglienza.
Interpretato dai reali protagonisti della storia, e per questo particolarmente efficace, il film si addentra in “un mondo fatto di incertezza, rischio, emozioni forti e decisioni che cambiano le vite per sempre”, spiegano i registi. “Crediamo che le persone che vedranno il film guarderanno le famiglie adottive in modo diverso”. Sono tante le opere che parlano di adozione, ma poche quelle che raccontano il processo per intraprendere quel percorso, e di solito iniziano quando il bambino adottato arriva in famiglia, cioè proprio dove Vittoria finisce. D’altra parte in questo genere di storie difficilmente sono raccontati i rischi che una coppia affronta lungo la strada, che invece sono molti.
Adozioni in calo
L’Italia vive una situazione paradossale: in Europa è il paese in cui si adotta il maggior numero di minori (nel mondo è il secondo, dopo gli Stati Uniti), nonostante tutte le complicazioni giuridiche possibili e nonostante i numeri dell’adozione siano diminuiti ovunque nel continente. Nel 2024 anche in Italia si registra un calo di adozioni internazionali concluse rispetto allo stesso periodo del 2023.
Non esistono invece dati aggiornati sulle adozioni nazionali: gli ultimi risalgono al 2021, anno in cui sono state registrate 866 adozioni nazionali, molte meno delle 1.290 del 2001. Non c’è tra l’altro una banca dati nazionale sul numero di bambini nati con il parto in anonimato né un elenco ufficiale delle cosiddette culle per la vita, spazi protetti in cui si può lasciare il bambino partorito senza essere visti.
I dati mancano e quelli che ci sono fanno pensare a grossi cambiamenti in corso. Sta facendo parlare di sé la storia di Cacao – questo il nome scelto dai genitori intenzionali per proteggere la sua identità – un bambino di quasi tre anni che nei prossimi giorni dovrà essere riportato dalla madre biologica, anche se giudicata inadeguata dal tribunale dei minori di Ancona due anni fa. Cacao era stato affidato “a rischio giuridico”, cioè esposto a ricorsi e ripensamenti da parte della famiglia biologica. La coppia “idonea all’adozione”, com’è definita dalla burocrazia, ha sempre mantenuto ottimi rapporti con la madre biologica, invitata saltuariamente a pranzo in modo da trascorrere del tempo con il bambino. Ma tutto questo non ha evitato il suo ripensamento.
In sostanza, perché Cacao rimanga con la famiglia che ha avuto finora, quella che lo ha amato e cresciuto dai suoi otto mesi, cioè da quando dalla casa famiglia è andato in preadozione, i genitori adottivi devono rivolgersi a un tribunale. Cacao è uno dei tanti bambini e bambine che in Italia sono contesi tra due famiglie, quella di origine e quella adottiva, in una diatriba spesso fatta di ricorsi, perizie, valutazioni di specialisti, sentenze, il tutto aggravato dalle interminabili lungaggini della giustizia.
Il 4 novembre i deputati Irene Manzi, Augusto Curti, Anthony Emanuele Barbagallo hanno depositato una interrogazione parlamentare per far luce sulla vicenda, che si basa sulla legge del 2015 che tutela la continuità degli affetti e che dà corpo alla previsione dell’articolo otto della convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza di New York. “Potremo non avere altra scelta che rivolgerci alla Corte europea dei diritti umani. Questa lotta non la facciamo solo per nostro figlio ma per tutti quelli che sono nella nostra stessa condizione e affrontano questo maledetto rischio giuridico”, raccontala madre adottiva di Cacao.
Rischio giuridico
La dicitura “a rischio giuridico” rimanda al fatto che nelle adozioni nazionali, a differenza di quelle internazionali, esiste la possibilità che la famiglia di origine o un parente fino al quarto grado faccia ricorso per rivendicare la potestà del minore, alle corti d’appello e poi in cassazione. E questo succede nonostante il bambino o la bambina sia stato “abbinato” con un decreto di “collocamento provvisorio” a una coppia che ha dichiarato la propria disponibilità.
“L’affidamento a rischio giuridico”, dice l’avvocata Maria Giovanna Ruo, che ha seguito molte vicende dolorose come quella di Cacao, “non è previsto dalle norme, è una prassi. Alle coppie disponibili all’adozione è chiesto di accogliere un bimbo che non è ancora adottabile e potrà non esserlo in futuro: in questo consiste il ‘rischio’. Le coppie vogliono un figlio per la vita, ma si trovano nella condizione di dover accettare una situazione in cui l’adozione è solo un’ipotesi. Accolgono il bimbo a scatola chiusa, senza avere accesso alla sua storia di vita e giuridica. Se l’adottabilità stabilita in primo grado è impugnata in appello, vengono informati dagli assistenti sociali, spesso a decisione ribaltata: il bambino deve tornare alla sua famiglia biologica”.
Ma non sono i bambini quelli che dovrebbero essere al centro del sistema? “Purtroppo, quando si verificano questi casi, è il bimbo che paga per gli errori di altri: è sradicato dalle sue abitudini e dagli affetti. Ha subìto un abbandono prima e subisce una situazione di sradicamento che per lui è un ulteriore abbandono, quando rientra in una famiglia dove può anche non essere mai stato”.
L’impressione è che affido e preadozione siano talvolta confusi e sovrapposti, spesso anche con un po’ di malafede. “Da tutte le testimonianze che abbiamo raccolto”, mi hanno raccontato i genitori di Cacao, “sembra che i tribunali possano forzare la mano su situazioni ad altissimo rischio giuridico, al limite dell’affido vero e proprio, attirando famiglie scelte tra quelle disponibili all’adozione, valutate dai servizi sociali per la loro idoneità ad accogliere un minore per sempre. A noi hanno dato pochissimo tempo per scegliere e la voglia di diventare genitori ha un certo peso nella decisione”.
Procedure nazionali e internazionali
La storia di D. e suo figlio S. è una storia finita bene e oggi D. riesce a parlarne serenamente, ma per lunghi anni non è stato facile convivere con il famigerato rischio giuridico. Un anno dopo la preadozione di S., D. e suo marito hanno saputo che qualcuno aveva fatto ricorso: “Ci hanno avvertito a cose già avanzate”. Dopo il ricorso è cominciata un’interminabile perizia sulla “capacità genitoriale” dei genitori biologici: le lungaggini giuridiche sono durate addirittura sei anni, complice anche la pandemia di covid-19. Il ricorso è finito anche in cassazione e poi è stato rimandato alla corte d’appello.
S. era stato abbandonato all’età di sei mesi dalla madre biologica nella casa famiglia in cui vivevano entrambi, e lì aveva trascorso altri dieci mesi. Dopodiché era stato dichiarato adottabile. “Quel limbo di mesi in una casa famiglia si sarebbe potuto evitare o ridurre”, mi spiega D., “come anche tutto il lunghissimo processo che ha coinvolto la nostra famiglia per questi anni. Quando ti comunicano che l’adozione di tuo figlio si è complicata e che rischi di perderlo, be’ non è facile. Ho dovuto intraprendere un percorso di psicoterapia per affrontare quel periodo”, continua D.
Ma perché una coppia sceglie l’adozione nazionale e non quella internazionale che non presenta questi rischi? Prima di tutto c’è una questione economica e poi non tutti hanno il tempo di seguire pratiche complesse e fare lunghi viaggi all’estero. “I costi delle internazionali possono variare molto da paese a paese, fino a un massimo di trenta-quarantamila euro per la Cina o la Corea del Sud, che però da tempo hanno interrotto queste procedure. Oggi anche la Russia ha chiuso le adozioni per l’Italia” e altre nazioni che autorizzano la transizione di genere, dice Monya Ferritti, autrice di Sangue del mio sangue. L’adozione come corpo estraneo nella società (Edizioni Ets 2023) e per anni responsabile del Coordinamento delle associazioni familiari adottive e affidatarie (Care). “E’ vero anche che le spese sono spalmate su più anni di attesa, ma mai come in questo periodo chi decide di adottare all’estero ha accesso a agevolazioni economiche da parte della commissione per le adozioni internazionali”.
Le complicazioni legate all’adozione, dunque, non sono solo quelle dei requisiti per essere idonei a intraprendere questi percorsi. In Italia l’adozione è consentita solo alle coppie eterosessuali sposate o che convivono da almeno tre anni, ed è dunque proibita ai single, se si escludono le cosiddette adozioni in casi particolari, ovvero quelle di bambini o bambine con disabilità o patologie.
L’ultima legge sull’adozione, la 184 del 1983, risale a quarant’anni fa e secondo gli esperti fa acqua da varie parti e andrebbe riformata. L’impressione è che i cambiamenti avvengano a forza di sentenze. Le sentenze dei tribunali e le leggi, inoltre, vanno quasi sempre nella direzione di una maggiore tutela della famiglia naturale, come per esempio il decreto della regione Piemonte del 2023, quello che prevede il cosiddetto allontanamento zero, voluto fortemente dall’assessora leghista Chiara Caucino e che vuole azzerare l’allontanamento dei minori dalle famiglie d’origine.
Strumentalizzazioni e soluzioni
Ma basti pensare al caso di Bibbiano e alla strumentalizzazione politica che ne è stata fatta. Non è certo il governo Meloni che ha creato l’impianto familista della giurisprudenza italiana, ma è sicuramente questo esecutivo che contribuisce a creare una cultura politica che legittima la superiorità della famiglia naturale. Anche la legge della regione Umbria, cosiddetta sulla famiglia, approvata il 25 settembre 2024, pone l’enfasi sull’adozione come parte di un’agenda a favore della natalità, inserita in un discorso funzionale alla “vita della famiglia”. Leggendo il testo si capisce che l’adozione non è vista come un modo per tutelare i diritti dei bambini, ma piuttosto come uno strumento per ripristinare un modello familiare ideale e promuovere la crescita della popolazione italiana.
Di contro, esistono anche tante storie di donne migranti o razzializzate, perché appartenenti a una minoranza etnica, dalle quali troppo velocemente sono allontanati i figli. Un caso recente è quello di Jacqueline, una ragazza rom di tredici anni, alla quale è stato tolto il figlio senza che ci fossero vere ragioni, se non quella anagrafica. Diversi sono i casi legati al parto in anonimato di donne migranti che finiscono in cause legali lunghissime, sempre che ci siano avvocati disposti ad aiutarle. La legge italiana prevede che una madre può non riconoscere il bambino e lasciarlo nell’ospedale in cui è nato.
“Ho seguito molte giovani e straniere alle quali non è stata data la possibilità del parto in anonimato”, dice Sara Pasquino, avvocata e attivista di Perugia. “Una ha riconosciuto il bambino dopo 24 ore ma il tribunale per i minorenni dell’Umbria aveva già aperto un procedimento di adottabilità. Tutto questo rientra nello spirito delle leggi italiane sulla famiglia, a cui non interessa il riconoscimento delle diversità e la famiglia è sempre una sola: quella bianca, fatta da due genitori, un uomo e una donna”.
Che cosa si può fare allora per migliorare la situazione e non ridurre i bambini a oggetti contesi? “Investire nella giustizia minorile per velocizzare i tempi: vanno accorciati, perché i tempi dei bambini non sono come quelli degli adulti. Per un bambino tre mesi sono un’infinità”, spiega Ruo. “Molto importante è anche il ruolo di tutori che vigilino anche sulla correttezza del procedimento: che non si verifichino errori, anche se comporta prendere posizione nei confronti dei giudici del procedimento. I servizi sociali sono in difficoltà e in generale lo stato sociale è stato indebolito da i troppi tagli. Ma bisogna anche riconoscere giuridicamente le coppie che accolgono i bambini a rischio giuridico, che non sono dei posteggi, ma persone che con la loro cura, dedizione, accudimento, per anni e anni spesso sono di fatto i genitori di quel bambino”.
I genitori il più delle volte sono abbandonati e affrontano da soli il percorso adottivo. Nei casi in cui si riesce a mantenere una relazione con la famiglia d’origine l’adozione diventa sempre più aperta, con effetti che potrebbero essere positivi per bambini e bambine, ma tutto questo succede senza che ci sia un quadro generale per le famiglie coinvolte e i professionisti che seguono questi percorsi.
Genitorialità diverse
In Italia il dibattito sulla trasformazione della gestazione per altri in un reato universale ha scosso l’opinione pubblica e ha spinto molte persone a ripensare all’adozione come alternativa. In queste ultime settimane si è sentito spesso dire che bisognerebbe semplificare le norme e accorciarne i tempi, che secondo il rapporto della commissione per le adozioni internazionali prevedono in media 52 mesi.
L’adozione, tuttavia, non dovrebbe essere un’alternativa né all’infertilità né ad altre forme di genitorialità, ma un percorso a sé. “Il problema è proprio la presunta superiorità di una scelta genitoriale rispetto a un’altra, come per esempio è considerata quella di una coppia eterosessuale”, dice Monya Ferritti. “È importante anche ribadire che l’adozione non è un ripiego, ma una scelta pari ad altre. È presentata come l’alternativa ‘buona’, ma ha anch’essa un impianto basato sulle coppie etero, e spesso non è scelta da chi non ha problemi di infertilità. Detto questo, le adozioni ‘a rischio giuridico’ sono nate proprio per dare la possibilità ai bambini di non rimanere nelle comunità e di avere una famiglia, anche se temporanea, mentre si conclude l’iter giuridico che li riguarda, a differenza di quello che succede ad esempio in Francia. Si tratta proprio di trovare genitori disposti a questo”.
Forse nel contrasto al bionormativismo – un neologismo che rimanda alla convinzione diffusa che i legami di sangue siano quelli legittimi e che la storia biologica coincida con quella biografica – contribuirebbe molto un discorso pubblico su tutte le forme di costruzione di legami, oltre quella biologica.
Non si tratta solo di allargare il gruppo di chi può adottare e chi no, ma anche di allargare il discorso sulle adozioni, scalzando il primato delle relazioni biologiche o della famiglia tradizionale e bigenitoriale, mettendo davvero al centro “l’interesse superiore del fanciullo”, come recita la convenzione di New York, oggi spesso dimenticata.
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