Un inizio d’autunno dalle coordinate precise per me, tutto orientato alla facile rima tra darkness e tenderness: ci sono il messianismo di Nick Cave nel suo ultimo album Wild God, sempre più country oltre che gospel, e il ritorno di Bon Iver, che nel brano Speyside rievoca una capanna di legno nei boschi attraverso la vibrazione di tutti i casini sonori che ha combinato dopo. E c’è un frammento ancora più breve, un singolo dei Cure dopo sedici anni di mancanza. Fatti musicali che mi rendono un po’ felice. Se dovessi impilare altri suoni sopra questi, opterei per l’esordio solista di Francesca Bono, Crumpled canvas, e aggiungerei Nel torbido di Paolo Spaccamonti, partendo proprio dalla bellissima title track, anche se i trenta minuti del disco non conoscono flessioni.

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C’entra niente con questa famiglia che ho appena composto? Sì e no. La correttezza m’imporrebbe riferimenti più astratti e vicini ai compositori minimalisti, ma cerco di sottrarre la chitarra di Paolo Spaccamonti da troppi orpelli celebrali per valorizzare una cosa importante che viene fuori dalla sua piccola opera quasi immacolata: la sensazione di una nudità di cui non ci si vergogna, perché imposta da uno stato liminare in cui si può essere solo così. Poetici, stanchi, inermi, tutte le volte che l’amore strappa e i sogni non servono, tanto per usare i titoli di due brani dell’album. Uscito per l’etichetta di Spaccamonti, la Liza, e con la presenza fulgida tra gli altri del violoncello di Julia Kent, Nel torbido è uno dei miei album del 2024, anche per questa familiarità dolce e un po’ oscura che mi ha fatto sentire e inventare. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1582 di Internazionale, a pagina 100. Compra questo numero | Abbonati