Quattordici anni dopo l’indipendenza, il Sud Sudan è di fronte a un baratro: scivolerà nella guerra o farà un passo indietro, attuando pienamente l’accordo del 2018 che mise fine alla guerra civile? Il presidente Salva Kiir e il primo vicepresidente Riek Machar si erano accordati per condividere il potere, ma in realtà non l’hanno fatto. E ora, nello stato dell’Alto Nilo, sono di nuovo su fronti opposti.
Il 17 marzo più di venti civili sono stati uccisi nei raid aerei su Nasir, una città vicino al confine con l’Etiopia. Gli abitanti del posto accusano gli eserciti sudsudanese e ugandese di aver condotto i bombardamenti. Anche se Kiir e Machar fanno entrambi parte dell’esecutivo, le forze governative e i loro alleati, tra cui l’Uganda, sono considerati fedeli a Kiir. All’inizio di marzo le forze governative erano state costrette ad abbandonare Nasir dopo un attacco dell’Esercito bianco, una milizia formata da combattenti di etnia nuer, fedeli a Machar. Le ostilità si sono intensificate giorni dopo, quando l’Esercito bianco ha catturato e ucciso David Majur Dak, un generale dell’esercito sudsudanese.
Il presidente Kiir si è alleato con l’Uganda per combattere gli insorti, e ha incolpato Machar, facendo arrestare o licenziare parecchi suoi alleati. Il 26 marzo anche il vicepresidente è stato arrestato e accusato di ribellione. In teoria Kiir e Machar sono nello stesso governo e nello stesso partito, il Movimento popolare di liberazione del Sudan (Splm). La corrente di Machar è chiamata Splm in opposizione (Splm-io).
La violenza nell’Alto Nilo è esplosa quando il governo ha annunciato di voler sostituire con nuove reclute i soldati in servizio lì da tempo. I combattenti delle milizie locali, che da anni chiedono di essere integrati nell’esercito nazionale, rischiano il disarmo forzato e rifiutano il piano proposto da Kiir. La creazione di una forza nazionale unificata era prevista dall’accordo di condivisione del potere del 2018, ma non si è mai concretizzata. Per questo ora parte dell’opinione pubblica sembra appoggiare Machar, anche se la sua lotta la porta avanti una milizia con una lunga storia di violenze etniche.

Un accordo da preservare
Anche se nessuno dei due desidera il ritorno di una guerra su vasta scala, l’annuncio dell’Splm-io sul suo ritiro dall’accordo di pace del 2018 ha fatto salire la preoccupazione. “L’opposizione dovrebbe protestare per l’arresto dei suoi leader, non ritirarsi dall’accordo. Altrimenti il governo si sentirà libero di ignorare le richieste dell’Splm-io, aumentando le probabilità di una guerra”, osserva Abraham Kuol Nyuon, politologo dell’università di Juba.
Di recente una coalizione di diplomatici di Canada, Germania, Paesi Bassi, Norvegia, Regno Unito e Stati Uniti si è offerta di mediare tra Kiir e Machar. Ma nemmeno i precedenti tentativi erano bastati a evitare l’escalation. L’alternativa è orribile: dal 2015, quando un mancato accordo tra Kiir e Machar era degenerato in una guerra civile, un conflitto triennale ha causato, secondo le stime, almeno 383mila morti e scatenato una carestia che ha colpito sei milioni di persone.
Il ricordo è ancora fresco, ma le minacce non si fermano. “Se l’Splm-io non scioglierà l’Esercito bianco, noi combatteremo”, ha dichiarato il ministro della difesa Chol Thon Balok. Il generale Muhoozi Kainerugaba, capo delle forze armate ugandesi, ha detto: “Voglio offrire all’Esercito bianco l’opportunità di arrendersi prima che sia troppo tardi. Diversamente, moriranno tutti”. Ma le persone colpite dalle recenti violenze sono di tutt’altro avviso. “Devono fermarsi tutti e mettere fine al ciclo della violenza. Il mio cuore è spezzato”, ha detto Abul Majur, la figlia del generale ucciso. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1608 di Internazionale, a pagina 26. Compra questo numero | Abbonati