I grandi incendi forestali, i segni più evidenti della crisi ecologica, imperversano: in Siberia un milione e mezzo di ettari, di cui si parla troppo poco, sono andati in fumo. L’ovest degli Stati Uniti e del Canada è in fiamme. E tutto il sud d’Europa è minacciato.

Le cause sono state identificate. E anche le conseguenze che hanno sull’ambiente: sappiamo che questi incendi sono dovuti ai cambiamenti climatici di cui sono responsabili le attività umane; che emettono tanti gas serra quanto la circolazione automobilistica; che le foreste colpite rimangono distrutte a lungo e le specie che ci vivono scompaiono. La foresta amazzonica produce ormai più anidride carbonica di quanta ne assorba. Il fumo sprigionato dagli incendi che divampano in Oregon e in California ha raggiunto New York, provocando soffocamenti tra gli abitanti. Il 30 luglio Joe Biden ha detto che i megaincendi sono la prova dell’urgenza di un’energica azione sul clima.

Meno nota è la correlazione tra lo sviluppo di questi incendi estremi e il degradarsi, per non dire la scomparsa, delle attività umane competenti nelle foreste, tra cui gli incendi controllati o il fuoco prescritto, che hanno come obiettivo, tra gli altri, quello di evitare i grandi incendi. I turisti e i “rurbani” (i rurali urbani), che si moltiplicano in campagna in cerca di un luogo di soggiorno più umano della grande città, non sanno nulla di queste cose. E sono anche negligenti: l’80 per cento degli incendi sono dovuti ad azioni umane accidentali e, in misura non trascurabile, criminali. Al contrario i popoli e gli individui che conoscono la foresta, la mantengono e se ne prendono cura da millenni sono stati allontanati e deculturalizzati in massa. Questo vale per i popoli indigeni del Nordamerica, per gli amerindi del Brasile, per i popoli aborigeni dell’Australia e per i nomadi della Siberia. Ma anche per i nostri agricoltori e abitanti delle foreste in Europa, che sapevano come coltivarle e proteggerle dalle fiamme.

Il meccanismo è semplice: le foreste che, nel corso dei millenni, si sono adattate alle attività umane – tra cui la pastorizia, l’agricoltura contadina, la creazione di vie di comunicazione e gli incendi di manutenzione – si stanno richiudendo e stanno diventando più uniformi. Si riempiono di materia secca e strati intermedi di vegetazione che rappresentano, per le fiamme, un trampolino per raggiungere le chiome degli alberi più grandi. Nelle attuali circostanze di temperature estreme, lunghe siccità, venti intensi e invasioni di parassiti, privarle delle necessarie attenzioni, spesso in nome di una natura incontaminata che praticamente non esiste, significa consegnarle alle fiamme.

Il primo atto

L’ecocidio da cui derivano i megaincendi è anche un etnocidio. Distruggere la foresta, compartimentalizzarla, privatizzarla, sfruttarla o disboscarla su aree immense a beneficio dell’estrazione mineraria, degli allevamenti, delle coltivazioni di soia transgenica o di palma da olio, significa, allo stesso tempo e con altrettanta violenza, distruggere culturalmente i popoli che la abitano.

Il sinistro caso di Fordlândia, nel 1928, illustra già questa correlazione. Per produrre caucciù l’industriale statunitense Henry Ford mise le mani su diecimila chilometri quadrati vicino a Santarem, in Brasile, cacciandone gli abitanti. Destinati a una piantagione di alberi della gomma, questi ettari furono cosparsi di cherosene e bruciati fino alla radice. Ma non fu mai prodotto neppure un litro di lattice. Non fu solo la foresta a essere devastata: anche gli alberi si contaminarono a vicenda. Il trattamento riservato ai lavoratori delle piantagioni reclutati tra gli indigeni brasiliani non fu sostanzialmente diverso da quello subìto dalla foresta. La città operaia “modello” in cui furono ospitati era completamente inadatta a loro. Il tentativo di colonizzazione culturale a loro destinato includeva carne in scatola e hamburger, il divieto d’incontrarsi con donne e di consumare alcool, l’obbligo di indossare un distintivo, orari di lavoro rigidi e altre costrizioni simili. Nel 1934, dopo molte rivolte e diserzioni, Fordlândia fu abbandonata.

Questo episodio, ben descritto dallo storico statunitense Greg Grandin, fu uno dei primi atti, anche se abortiti, di un dramma che in seguito avrebbe visto il trionfo sulle avversità naturali e sulla presunta “barbarie” umana. Dove cominciamo a riconoscere dei saperi pazientemente sviluppati nell’arco di secoli, vediamo solo oscurantismo e superstizione. È il caso dei popoli aborigeni dell’Australia, la cui situazione è oggi emblematica dell’intreccio tra la distruzione della natura e la distruzione di forme di vita autoctone.

Se la boscaglia è vittima di megaincendi che nessuna tecnologia umana, per quanto sofisticata, può controllare, è anche perché questi popoli, che si sono presi cura della foresta per cinquantamila anni, sono stati decimati o comunque hanno perso la possibilità di alimentare la biodiversità e di “pulire il paesaggio”, che si è evoluto in modo tale da aver bisogno delle loro cure.

Oggi, di fronte all’assoluta impotenza della razionalità occidentale, è ai ranger aborigeni, ma anche agli amerindi, ai forestali corsi, agli allevatori californiani e ai popoli siberiani che ci rivolgiamo per chiedere aiuto, perché c’insegnino quello che sanno e per organizzare la lotta ai megaincendi in maniera appropriata. Speriamo che la loro “cultura del fuoco” e le loro scienze naturali abbiano resistito all’assalto della “civilizzazione” meglio della natura ormai in fiamme. ◆ _ff _

Joëlle Zask _ è una filosofa francese che insegna all’università di Aix-Marseille. Ha scritto Quand la forêt brûle _ (Premier Parallèle 2019).

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Questo articolo è uscito sul numero 1423 di Internazionale, a pagina 28. Compra questo numero | Abbonati