Alla periferia della città di Pamplona, nella Spagna del nord, una lunga fila di trattori rossi, verdi e blu si fa strada tra clacson e luci arancioni. Scortati dai furgoni blu della policía nacional, sotto un cielo piovigginoso e grigio, sono pochi i manifestanti che hanno voglia di spiegare i motivi della protesta. Ma alla fine un giovane agricoltore della vicina città di Estrella decide di parlare: “Siamo sommersi dalle regole. Devono darci tregua con le leggi e la burocrazia. Così non possiamo reggere la concorrenza degli altri paesi”.
In Francia e in Germania gli agricoltori hanno interrotto temporaneamente la mobilitazione in attesa che i governi – come ha detto un agricoltore francese – non si limitino alle “parole d’amore” verso la categoria, ma diano anche una “prova d’amore” concreta. In Spagna, invece, le proteste sono appena cominciate.
Seguendo un copione già visto in gran parte d’Europa, dalla Polonia al Portogallo, dal 6 febbraio gli agricoltori spagnoli si sono mobilitati e hanno bloccato un porto, un grande mercato all’ingrosso e alcune strade, dichiarando di essere determinati ad andare avanti per tutto il mese di febbraio. Anche quelli italiani sono saliti sui trattori per raggiungere la periferia di Roma e poi organizzare, il 9 febbraio, un corteo simbolico davanti al Colosseo. Nelle ultime settimane in Francia i blocchi hanno coinvolto grandi città come Parigi e Lione. Anche Bruxelles e Berlino sono state quasi paralizzate. Gli agricoltori hanno bloccato autostrade, scaricato letame, lanciato uova, devastato supermercati, incendiato balle di fieno e bancali, a volte scontrandosi con la polizia.
La loro causa è sostenuta con entusiasmo dalla destra populista, che considera queste proteste un nuovo fronte della lunga guerra contro le “élite”, gli “ambientalisti radicali” e i “diktat di Bruxelles”. Così, a pochi mesi dalle elezioni europee di giugno, in cui l’estrema destra potrebbe ottenere ottimi risultati, l’agricoltura (che rappresenta l’1,4 per cento del pil europeo) è finita improvvisamente in cima alle priorità politiche del continente.
“Ovunque in Europa emergono gli stessi interrogativi”, ha detto il primo ministro francese Gabriel Attal. “Come possiamo produrre di più ma in modo migliore? Come possiamo continuare a combattere il cambiamento climatico? Come possiamo evitare la concorrenza sleale dei paesi stranieri?”. Sono domande a cui l’Europa deve rispondere al più presto.
Rivendicazioni comuni
I primi segnali di malcontento sono arrivati dai Paesi Bassi, la nazione più intensamente coltivata d’Europa, dove si allevano 110 milioni di capi di bestiame e, di conseguenza, le emissioni di azoto sono quattro volte superiori alla media dell’Unione europea.
Cinque anni fa le autorità olandesi dichiararono che erano necessarie “misure drastiche”, compresa l’acquisizione e la chiusura forzata di alcune aziende agricole. Il governo presentò un piano per dimezzare le emissioni di azoto entro il 2030, riducendo di un terzo il numero di capi di bestiame. E gli agricoltori si fecero subito sentire. Nell’ottobre 2019 più di duemila trattori raggiunsero la sede del governo, provocando code in autostrada per centinaia di chilometri. “Niente agricoltori, niente cibo”, si leggeva sui manifesti. Fu quello l’inizio di un movimento che da allora ha coinvolto quasi tutti i paesi dell’Unione europea, accelerando radicalmente negli ultimi mesi. Finora la protesta ha risparmiato solo Austria, Danimarca, Finlandia e Svezia.
In molti casi le rivendicazioni riguardano questioni legate alle specifiche realtà nazionali. In Italia, per esempio, i manifestanti chiedono il ripristino dell’esenzione dalla tassa sui redditi agricoli introdotta nel 2017 ma eliminata con la finanziaria del 2024.
In Germania il tema più delicato è il piano del governo per tagliare gli sgravi fiscali sul carburante agricolo. Le difficoltà, invece, sono comuni: il crollo dei prezzi dei prodotti, l’aumento dei costi, il potere sempre maggiore della grande distribuzione, le importazioni a prezzi stracciati e soprattutto le normative europee per l’ambiente, che molti agricoltori considerano ingiuste e irrealistiche. “I problemi sono diversi”, spiega Arnaud Rousseau, presidente del più grande sindacato francese degli agricoltori, l’Fnsea. “Ma la base della protesta è chiara: la distanza tra chi lavora nei campi e i governi che prendono le decisioni”.
Il 2 febbraio il ministro dell’agricoltura spagnolo Luis Planas ha dichiarato che le cause della protesta sono molte e complesse, ma possono essere riassunte in una profonda insoddisfazione degli agricoltori. “Vogliono essere ascoltati”, ha aggiunto Planas. “Ma spesso sentono di non essere rispettati, da Bruxelles, a volte da Madrid, dalla politica”.
Alcuni problemi sono strutturali. La politica agricola comune dell’Unione europea (Pac), che con i miliardi di euro stanziati annualmente ha garantito la sicurezza alimentare del continente per più di sessant’anni, si è sempre basata su un’economia di scala: aziende agricole di grandi dimensioni e standard comuni. Questa impostazione ha progressivamente favorito l’accorpamento delle aziende (il cui numero si è ridotto di un terzo dal 2005), ma ha lasciato alcune attività di grandi dimensioni sommerse dai debiti e ne ha consegnate molte altre più piccole a una concorrenza durissima sul fronte dei prezzi. Altri problemi, invece, sono temporanei. A causa della pandemia e soprattutto della guerra in Ucraina, negli ultimi due anni sono diminuiti ulteriormente i già ridotti margini di profitto.
I costi di carburante, elettricità e fertilizzanti hanno avuto un’impennata. E i tentativi dei governi e della grande distribuzione di limitare l’aumento dei prezzi per i consumatori hanno fatto calare ancora di più i guadagni degli agricoltori. I dati di Eurostat indicano che i prezzi pagati ai produttori sono diminuiti in media del 9 per cento tra la fine del 2022 e la fine del 2023.
Questo processo è stato aggravato da un forte incremento delle importazioni, spesso da paesi e regioni dove l’agricoltura non deve rispettare gli stessi standard imposti in Europa. Per fare un esempio, l’arrivo di prodotti agricoli a basso costo, in particolare il grano ucraino (sul quale, subito dopo l’inizio dell’invasione russa, l’Unione europea ha cancellato quote e dazi), ha spinto gli agricoltori polacchi a bloccare le strade di confine già nella primavera del 2023. Un’altra fonte di risentimento sono gli accordi di libero scambio con i paesi extraeuropei, a cominciare dall’accordo imminente con il Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay), dove è consentito l’uso di ormoni, antibiotici e pesticidi vietati nell’Unione europea. “Dobbiamo fare i conti con tutte queste regole e contemporaneamente subire la concorrenza di prodotti provenienti da paesi che non le rispettano”, ha detto Emmanuel Mathé, un agricoltore francese durante un blocco autostradale a Parigi.
A completare il catalogo dei problemi c’è l’impatto della crisi climatica sulla produzione, soprattutto nell’Europa del sud. Oltre che in Italia, gli agricoltori hanno protestato anche in Grecia.
Freno d’emergenza
Tuttavia, il bersaglio principale della protesta è il pacchetto di norme ambientali introdotto da Bruxelles. Per un’industria già in difficoltà, il green deal europeo (pensato per raggiungere la neutralità climatica entro il 2050) sembra un passo troppo rischioso. Gli obiettivi per l’agricoltura includono il taglio del 50 per cento dell’uso dei pesticidi entro il 2030, la riduzione del 20 per cento dell’uso dei fertilizzanti, l’aumento di terreni da lasciare a riposo e il raddoppio della produzione biologica.
Davanti a una mobilitazione sempre più decisa, i politici europei si sono fatti prendere dal panico. La Commissione europea ha fatto una serie di concessioni nel tentativo di allentare la tensione. La presidente Ursula von der Leyen ha ribadito che l’Europa tiene in grande considerazione le rivendicazioni degli agricoltori e ha accantonato il progetto di tagliare l’uso dei pesticidi. A gennaio, inoltre, Bruxelles aveva annunciato un “freno d’emergenza” all’importazione di alcuni prodotti ucraini e rinviato l’introduzione dell’obbligatorietà del maggese. La Commissione ha anche fatto concessioni sul taglio delle emissioni di gas serra diversi dalla CO2.
Pur ribadendo che il settore deve andare verso “un modello di produzione più sostenibile”, Von der Leyen ha ammesso che gli agricoltori hanno di fronte una lunga serie di problemi e “meritano di essere ascoltati”.
Anche al livello nazionale i governi si affannano per trovare risposte. Berlino ha ridimensionato i piani sul taglio dei sussidi per il gasolio, mentre la presidente del consiglio italiana Giorgia Meloni ha accettato di ripristinare l’esenzione fiscale sospesa per i redditi più bassi. Parigi ha cancellato un aumento della tassa sul carburante e ha promesso 400 milioni di euro di aiuti e 200 milioni di finanziamenti. Il primo ministro francese Attal ha inoltre fatto sapere che per ora la Francia non ha nessuna intenzione di firmare l’accordo con il Mercosur, promettendo invece che il governo smetterà di imporre agli agricoltori norme più vincolanti di quelle previste da Bruxelles.
Basterà? La crescente politicizzazione del movimento è una preoccupazione concreta. Nei Paesi Bassi un nuovo partito populista, il Movimento civico-contadino (Bbb), ha trionfato alle elezioni provinciali del 2023 e, anche se non è riuscito a ripetersi alle legislative, sta comunque negoziando la formazione di un governo con l’estrema destra di Geert Wilders.
In Germania il partito di estrema destra Alternative für Deutschland (Afd), al secondo posto nei sondaggi, ha sostenuto la protesta degli agricoltori, come in Francia hanno fatto gli esponenti del Rassemblement national di Marine Le Pen. La protesta degli agricoltori rappresenta una grande opportunità per i partiti populisti e di estrema destra, un’estensione delle battaglie culturali in cui un’Unione europea considerata sempre più dittatoriale e le élite urbane e internazionali sono accusate di opprimere gli agricoltori.
Anche se la maggior parte nega i legami con l’estrema destra, molti manifestanti ammettono di sentirsi incompresi: dai politici, che impongono regolamenti assurdi; dai consumatori, che non sanno come viene prodotto il cibo; e dagli ambientalisti, che li prendono continuamente di mira. Durante le proteste di gennaio in Germania, molti esibivano cartelli contro la Tesla. A quanto pare le auto elettriche prodotte da Elon Musk sono diventate il simbolo dei ricchi che vivono in città e vogliono proteggere l’ambiente senza sapere però come funziona l’agricoltura.
L’ombra delle elezioni
Alla periferia di Pamplona, le rivendicazioni degli agricoltori spagnoli sono simili a quelle negli altri paesi: vogliono meno burocrazia, prezzi più equi, una revisione del green deal, garanzie sui sussidi della Pac e una difesa più efficace dalla concorrenza extraeuropea.
A Madrid, Planas è consapevole dei rischi politici della protesta. Il ministro dell’agricoltura teme che i partiti di opposizione sfruttino la mobilitazione a proprio vantaggio e ha dichiarato di essere particolarmente preoccupato dalle parole pronunciate in parlamento da Alberto Núñez Feijóo, leader del Partito popolare, che ha accusato il governo socialista di aver abbandonato gli agricoltori a favore di quello che ha definito “dogmatismo ambientalista”. “È un’espressione che abbiamo sentito spesso dai negazionisti climatici e dai nemici dell’Unione europea”, ha dichiarato Planas. “È molto allarmante, perché credo che gli spagnoli siano consapevoli della gravità del cambiamento climatico”. Le dichiarazioni di politici come Feijóo, ha aggiunto il ministro, mettono in discussione l’approccio dell’Unione europea all’emergenza climatica, i cui effetti, a cominciare dalla prolungata siccità, sono evidenti nella penisola iberica.
“La Spagna è un paese filoeuropeo”, ha precisato Planas. “Questo non significa che siamo sempre d’accordo con le decisioni di Bruxelles. Ma penso che la situazione attuale sia direttamente collegata alle prossime elezioni europee”. ◆ as
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Questo articolo è uscito sul numero 1550 di Internazionale, a pagina 24. Compra questo numero | Abbonati