In un complesso esercizio di finzione, la filosofa femminista Donna Haraway immagina, nel suo libro Chthulucene (Produzioni Nero 2019), come sarà la vita sulla Terra tra quattrocento anni. Secondo Haraway, l’antropocene sarà arrivato al termine e avrà avuto inizio quello che lei chiama “chthulucene”, un’era socio-geologica contrassegnata dalla cooperazione tra le specie sopravvissute. La filosofa statunitense ipotizza una forma di vita quasi umana appena nata costretta a stabilire relazioni simbiotiche con altre specie a rischio. La finzione speculativa e filosofica di Haraway, che fonda la vita che verrà sulla cooperazione e le relazioni tra specie diverse anziché sulla riproduzione eterosessuale e le logiche identitarie capitalistiche, è un buon modello per pensare una rivoluzione inversa a quella della Fattoria degli animali di George Orwell. La domanda è: davanti a una riorganizzazione delle forme di potere e di dominio, prendendo il punto di vista degli altri animali come se fosse il proprio, in che modo si possono inventare nuove forme di cooperazione tra la diversità o nuove relazioni che ci permettano, citando un’altra teorica vivente, l’antropologa statunitense Anna Tsing, “di vivere nelle rovine del capitalismo”? Tutte riflessioni bellissime, eppure ancora un po’ troppo fantastiche. Bisognerebbe chiedere a Haraway o a Tsing di dirci anche cosa dobbiamo fare oggi che l’antropocene è appena cominciato. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1517 di Internazionale, a pagina 102. Compra questo numero | Abbonati