C’è qualcosa di confortante nell’imprevedibilità degli avvenimenti mondiali. Consideriamo per esempio tre grandi paesi con un sistema di governo autoritario, per usare un eufemismo, che sono alle prese con un braccio di ferro internazionale: Russia, Cina e Iran. Queste tre potenze, delle quali le prime due hanno armi nucleari e la terza le avrà presto, stanno affrontando crisi che non sono state capaci di anticipare e che sono legate soprattutto al fattore umano.
La Russia ha sottovalutato la capacità di resistenza degli ucraini e il loro attaccamento a un’identità che il Cremlino nega. Al tempo stesso Vladimir Putin ignorava l’impreparazione del “secondo esercito del mondo”, il suo. La Cina, invece, è reduce dal ventesimo congresso del Partito comunista, che ha incoronato il presidente Xi Jinping, conferendogli un terzo mandato. Pechino, però, si trova a dover gestire una rivolta senza precedenti contro la politica “zero covid”. L’Iran, infine, gioca una partita delicata: sta fornendo armi alla Russia e si sta allontanando dall’accordo sul nucleare per sviluppare un arsenale atomico, ma nel frattempo è alle prese con un avversario apparentemente meno temibile: le donne.
In Russia, Cina e Iran il regime pensa di essere al di sopra di tutto. Oggi però questi governi autoritari sono scossi da quello stesso popolo che consideravano incapace di agire
Questi tre esempi dimostrano che il fattore umano è il dato più imprevedibile. Possiamo ricordare anche la primavera araba cominciata dopo il suicidio di un ambulante a Tunisi nel dicembre 2010; o la rivolta in Cile nel 2019 per l’aumento del prezzo dei biglietti della metropolitana. Le emozioni collettive sono un elemento chiave della storia, che nessuna intelligenza artificiale sarà mai capace di prevedere. Questo dovrebbe farci riflettere.
Chi, come me, segue da vicino la Cina, resta sbalordito guardando i video che mostrano i manifestanti contestare Xi Jinping per le strade di Shanghai o nell’università Tsinghua di Pechino, dove si è formato il presidente cinese. Era dalla primavera di Pechino del 1989 che non assistevamo a qualcosa di simile. Dopo la conquista del potere nel 2012, Xi si è dedicato alla missione di distruggere l’abbozzo di una società civile – ai suoi occhi un cavallo di Troia dell’occidentalizzazione – che i suoi predecessori avevano tollerato. Pensava di esserci riuscito grazie a una sorveglianza tecnocratica senza uguali nel mondo, a processi simbolici e a una volontà di normalizzazione di cui gli uiguri sono stati le prime vittime e di cui Hong Kong è stata la vetrina nel 2019. La Cina sembrava essere diventata un paese in cui non era possibile alcuna opposizione organizzata. E invece la politica zero covid ha cambiato le cose. Le immagini dei mondiali in Qatar hanno mostrato ai cinesi che il resto del mondo ormai vive normalmente, o quasi, nonostante il virus. Il contrasto tra gli uomini in divisa bianca del sistema sanitario cinese e il pubblico senza mascherina in Qatar è stato più efficace di qualsiasi slogan. Poi ci sono stati diversi drammi: 27 persone a bordo di un autobus che le portava in un centro per la quarantena nel Guizhou sono morte in un incidente; la rivolta nella fabbrica della Foxconn (che realizza prodotti per la Apple) a Zhengzhou; e infine l’incendio di un edificio a Urumqi, nella provincia dello Xinjiang, che ha provocato dieci morti e ha scatenato la rabbia della popolazione perché, secondo i residenti, i soccorsi sono stati bloccati dalle restrizioni contro il covid.
In Cina, come altrove, la rivolta nasce dal sentimento d’ingiustizia e dall’assenza di un dialogo con le autorità che eseguono ciecamente gli ordini dall’alto. Questi fattori sono esasperati dalla mancanza di libertà d’espressione. I social network diventano spazi liberi solo se raggiungono grandi numeri: quando milioni di persone pubblicano un video, la censura non è più efficace.
In Iran sta succedendo qualcosa di simile. Il paese ha alle spalle una lunga storia di rivolte represse nel sangue e di controllo ferreo del regime. Eppure la morte di una ragazza, Mahsa Amini, mentre si trovava nelle mani della polizia religiosa, ha prodotto una rivolta generazionale guidata dalle donne, che hanno preso coscienza del loro potere. Anche in questo caso i social network hanno permesso di amplificare i gesti di sfida, come quelli di togliersi il velo, tagliarsi i capelli, baciarsi in pubblico.
In Russia, Cina e Iran il regime pensa di essere al di sopra di ogni circostanza. I leader autoritari parlano sempre del popolo ma guidano il paese con una “verticalità” che non tollera alcuna autonomia. Oggi però queste dittature sono scosse da quello stesso popolo che consideravano incapace di agire. A loro parziale giustificazione va detto che le democrazie non sempre sono più efficaci da questo punto di vista e dovrebbero consentire una maggiore orizzontalità.
Queste crisi inattese dovrebbero suscitare una maggiore attenzione per il fattore umano nelle analisi degli scenari futuri. Ma non si può pretendere tanto da regimi che credono solo nell’uso della forza. ◆ as
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Questo articolo è uscito sul numero 1490 di Internazionale, a pagina 36. Compra questo numero | Abbonati