Ho un amico a cui rispondo sempre al telefono, ovunque io sia. Jarvis Masters mi fa delle chiamate a carico del destinatario dalla sezione del carcere riservata ai condannati a morte. Non so come funzioni esattamente la cosa, ma credo che gli agenti portino un apparecchio nella piccola cella in cui è recluso da circa trent’anni, permettendogli così di fare una telefonata. Ogni volta un messaggio automatico mi ricorda che le conversazioni potrebbero essere registrate. La chiamata s’interrompe dopo quindici minuti. Quando gli agenti non portano via il telefono per darlo a qualcun altro, Jarvis può richiamarmi. Ridiamo e scherziamo, ma raramente parliamo della vita quotidiana nel carcere di San Quentin, negli Stati Uniti. Di solito Jarvis non vuole affrontare l’argomento, anche se durante una mia recente visita all’istituto mi ha raccontato una storia divertente a proposito di Charles Manson, risalente ai tempi in cui era in una cella vicina alla sua. Vivere per 41 anni in uno spazio piccolo all’interno di una struttura di cemento significa subire una forte privazione sensoriale, e questo ha alimentato in Jarvis il desiderio di avere un contatto con il mondo esterno.
Durante un incontro all’inizio dell’anno, su sua richiesta, gli ho descritto un luogo dove sono andata a fare un’escursione. Mi ha chiesto di ricordargli cosa fosse il muschio. È una persona istruita e attenta, ma ho il sospetto che in tutti gli anni passati in carcere non abbia mai poggiato un piede sull’erba. Una volta, mentre parlavamo di come potrebbe essere la sua vita quando uscirà, mi è sembrato incredulo all’idea di poter incontrare i suoi amici tutti insieme.
Negli Stati Uniti, uno dei paesi con il più alto numero di detenuti al mondo, chi sta dietro le sbarre usa il telefono come un’ancora di salvezza per restare in contatto con l’esterno
Quando mi chiama durante una delle mie escursioni cerco di portarlo con me. Gli descrivo il terreno nel modo più chiaro possibile, respirando con affanno quando procedo in salita. Una volta mi ha chiamata mentre mi trovato all’aeroporto per protestare contro il divieto d’ingresso negli Stati Uniti imposto da Donald Trump ai viaggiatori provenienti da sette paesi a maggioranza musulmana. L’ho messo in vivavoce e gli ho fatto ascoltare gli slogan. Era più coinvolto di me. Un’altra volta mi ha telefonato mentre stavo guidando verso casa dopo aver partecipato a un’iniziativa per spingere gli elettori del Nevada ad andare a votare. Mi ha chiamata anche mentre stavo preparando una torta. Abbiamo parlato della torta e poi il rum scuro che stavo usando mi ha spinta a chiedergli della prima volta che ha bevuto e degli uomini che passavano le giornate bevendo da bottiglie nascoste in una busta di carta nel quartiere povero in cui è cresciuto a Los Angeles. Mi ha raccontato dei veterani del Vietnam che prendevano sorsate da quelle buste di carta. “Non erano brave persone, ma lo nascondevano bene”, mi ha detto ridendo. Abbiamo ragionato su vecchie marche di vino scadente, come Ripple e Night Train, e gli ho promesso di controllare se esistono ancora.
Io e Jarvis parliamo di vita quotidiana, di salute, della mia famiglia, di cucina, politica e letteratura. Jarvis ha scritto due libri, inclusa un’autobiografia che è stata inserita nell’Oprah’s book club, la selezione di libri curata dalla popolare conduttrice televisiva Oprah Winfrey, ed è finita tra i best seller del New York Times. Ovviamente parliamo anche della sua vicenda. Di recente abbiamo discusso della possibilità che sia scarcerato, perché finalmente il suo caso è stato riesaminato dalla giustizia federale, 32 anni dopo la condanna. So che sarà un momento di gioia, ma so anche che sarà disorientato. Si sentirà come un soldato che torna a casa dalla guerra.
Jarvis è stato rinchiuso a San Quentin a 19 anni perché aveva fatto alcune rapine a mano armata. Poi, qualche hanno dopo, è stato incastrato per un crimine che secondo me e molti altri non ha commesso: aver affilato l’arma con cui è stato ucciso un agente. In un processo discutibile, è stato condannato grazie alle testimonianze di alcuni altri detenuti che hanno ritrattato più volte. Alcune prove che avrebbero potuto scagionarlo non sono state ammesse. Perfino uno dei figli dell’agente morto ha dichiarato di credere nella sua innocenza. E come lui anche Oprah Winfrey.
Alla fine degli anni ottanta un collaboratore del suo avvocato gli ha fatto scoprire il buddismo. Da allora Jarvis ha costruito un rifugio nella sua mente che gli permette di trovare pace. E soprattutto, in qualche modo, è riuscito a costruirsi una vita oltre le mura del carcere, coltivando legami con la comunità buddista tibetana, pubblicando libri e stringendo amicizie.
Jarvis è una persona straordinaria, ma i suoi problemi sono tristemente comuni. In uno dei paesi con il più alto numero di detenuti al mondo, chi sta dietro le sbarre usa il telefono come un’ancora di salvezza per restare in contatto con l’esterno. Non c’è niente di nobile nel fatto che io sia amica di Jarvis. Ne traggo un enorme beneficio. E adoro le nostre telefonate, in cui chiacchieriamo e ridiamo. ◆ as
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Questo articolo è uscito sul numero 1506 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati