Ci sono solo ottanta chilometri tra Erbil, la capitale in pieno sviluppo della regione curda dell’Iraq, e Mosul, la città irachena che l’esercito di Baghdad sta cercando di sottrarre al gruppo Stato islamico (Is). Ma raccontando l’offensiva su Mosul mi sono resa conto che a volte basta una decina di chilometri per passare da un universo all’altro, attraversando mondi molto diversi.

Con i fotografi, videomaker e autisti dell’agenzia Reuters, ho effettuato questo tragitto ogni giorno, percorrendo un’autostrada mal asfaltata, venendo fermata ai posti di blocco e attraversando villaggi che portano i segni del regime a cui sono stati sottoposti da parte dell’Is e delle battaglie di cui sono stati centro.

Siamo qui per raccontare i combattimenti alle porte della città. Ma il tragitto per arrivarci, da Erbil a Mosul, è una storia a sé.

Ogni mattina dobbiamo caricare sui fuoristrada i nostri giubbotti antiproiettile, elmetti, videocamere, macchine fotografiche e taccuini prima di lasciare Erbil. Prendiamo sulla strada principale, direzione ovest, a corto di sonno e sempre meno loquaci ogni giorno che passa.

Ci fermiamo spesso a comprare della frutta fresca a Kalal, con la sua assurda statua di un gigantesco pesce nella piazza principale. Mentre imbocchiamo la strada dissestata e ci dirigiamo verso i primi posti di blocco, i sacchi pieni di arance e banane vengono scaraventati da una parte all’altra del bagagliaio per quasi un’ora. La cosa m’ispira una battuta sulla macedonia di frutta. Che non fa ridere nessuno.

È la mia prima missione in Iraq. L’attraversamento dei posti di blocco mi ha insegnato rapidamente molte cose.

Il posto di blocco Shaqouli controllato dai peshmerga curdi, a est di Mosul, il 10 novembre 2016. (Odd Andersen, Afp)

La prima è che queste barriere sono di tipi e forme molto diversi. Un soldato solitario e stanco, stravaccato su una sedia di plastica, ha un’aria meno minacciosa di un bunker a due piani circondato da filo spinato. Ma può comunque costringervi a un’attesa nervosa di un’ora prima di ordinarvi di fare dietrofront.

La seconda – rischio di essere banale, ma è la migliore immagine che mi viene in mente – è che passare un posto di blocco è come preparare una torta seguendo una ricetta che cambia ogni giorno. A volte bisogna sorridere un po’ meno e trovare il numero giusto da chiamare. Altre volte il mix perfetto per passare è mettere via taccuini e videocamere e avere la fortuna di trovare in un volto familiare al posto di blocco.

I nostri due primi check point della mattinata sono controllati da soldati curdi che osservano le nostre tessere di giornalisti al di sopra dei loro occhiali da aviatori, scarabocchiando i nostri nomi su un pezzo di carta che dovremo presentare all’ultimo sbarramento controllato dai curdi, meno di trenta chilometri prima di Mosul.

Una volta passati arriviamo nel territorio federale iracheno, dove i posti di blocco sono gestiti da un misto di poliziotti, soldati e agenti dei servizi di contro terrorismo (Cts), che svolgono un ruolo di punta nella lotta all’Is.

La prima settimana troviamo spesso un volto familiare, come quello dell’allampanato militare del Cts dai capelli rossi e con la sciarpa fluorescente, e superiamo l’ultimo sbarramento prima di Mosul senza colpo ferire.

Ma la seconda settimana gli uomini che avevamo imparato a conoscere partono per Baghdad per una pausa, e vengono sostituiti.

“Me ne frego di quante volte siete passati di qui la settimana scorsa, non vi conosco”, urla un militare del Cts, lo sguardo nascosto dagli occhiali da sole di plastica e i tratti del viso coperti sotto un passamontagna nero.

Osserviamo nervosamente il nostro autista, che opta per una tattica che alterna l’empatia allo snocciolamento di nomi che dovrebbero far colpo sul suo interlocutore.

“Fratello, hai sicuramente dovuto fare una pausa dopo questa battaglia così difficile. Capisco la tua stanchezza, perché anche noi abbiamo accompagnato ogni giorno il comandante Muntazar. Karkukli (una delle periferie a est di Mosul) è veramente un brutto posto”, glissa dolcemente.

L’ufficiale alza un sopracciglio, l’unico punto della sua anatomia ancora scoperto, e ci lascia passare con un movimento del suo fucile d’assalto.

Una volta superato quest’ultimo controllo, rimane una porzione d’autostrada di 12 chilometri fino alla vera e propria città di Mosul. A Gogjali, ultimo villaggio prima della città, i campi di grano hanno ceduto il posto a quella che un tempo era una sorta di zona industriale, con dei pannelli dipinti a mano che penzolano da alcune botteghe color pastello, da entrambi i lati della strada. Ogni giorno passiamo davanti a cartelli come “il barbiere della pace”, “la fibra di vetro dell’amore” oppure “la moschea industriale”.

Iracheni scappano dal villaggio di Gogjali, il 3 novembre 2016. (Bulent Kilic, Afp)

Non c’è anima viva in questo squarcio postapocalittico, devastato da due anni di controllo dello Stato islamico e dai violenti combattimenti che hanno costretto i jihadisti ad arretrare verso ovest. Carcasse di camion bruciati fino all’osso giacciono rovesciati su un fianco, davanti a baracchine senza porte né finestre. Alcuni portali di ferro battuto sono coperti da graffiti, che segnalano il fatto che sono di proprietà di sunniti, sperando così di essere risparmiati dagli scontri settari che hanno devastato questa parte dell’Iraq.

A volte sembrerebbe che queste attività siano state abbandonate da molto tempo, come se attraversassimo le rovine, inoffensive e arrugginite, di un conflitto dimenticato. In altri momenti è come se questi negozi fossero la riproduzione in due dimensioni di una città lontana. Un misto tra una città fantasma del far west statunitense, la serie tv The walking dead e… Mosul, immagino.

Avvicinandosi, si vedono apparire anche i primi abitanti, che si muovono tra le baracchine e le case distrutte. Se siamo in una città fantasma, questi sono gli spiriti che la abitano. I loro volti sono scavati e inespressivi. Eppure, giorno dopo giorno, la vita riprende, quasi impercettibilmente, in quel purgatorio che era divenuto Gogjali.

Un giorno ci accorgiamo che un negozio ha riaperto, e distribuisce bottiglie d’acqua. Più tardi, la stessa settimana, un ragazzo vende su un vecchio carretto delle sigarette e dei biscotti. Dieci giorni dopo, quando la mia collega Rouba el Husseini passerà di lì, Gogjali sarà piena di vita, con banchi di frutta e verdura, macellerie e bancarelle di dolciumi.

Quando le linee del fronte a Mosul rimangono relativamente calme, incrociamo alcuni convogli di furgoni e camion che trasferiscono alcune famiglie terrorizzate verso Khazer e i campi per sfollati. Ma se si tratta di ambulanze, che si dirigono a sirene spiegate verso Erbil, sappiamo che la giornata è stata sanguinosa.

Le piccole costruzioni di Gogjali scompaiono. Davanti a noi c’è l’ingresso est della città, tuttora nelle mani del gruppo Stato islamico. Come il cimitero alla nostra sinistra. Imbocchiamo a destra un sentiero sterrato che s’infila nel labirinto dei quartieri orientali.

Raggiungere Mosul è un po’ come un’immersione in profondità, fatta di diversetappe. Entrando nella città mi accorgo che questa possiede i suoi strati specifici.

Il primo livello è fatto di case da due piani, ognuna col suo piccolo giardino o garage, separato dalla città da un portale di ferro dai colori vivi. I bambini spiano la nostra auto dalle porte di colore foglia di tè o feccia di vino, mentre alcuni anziani ci salutano, accovacciati in piccoli gruppi davanti a delle porte dorate.

Ci si dimentica quasi che stiamo entrando in una zona di guerra. Ma facendoci strada nel quartiere, dopo esser passati dal nostro fuoristrada a un Humvee blindato dei Cts, e aver indossato il giubbotto antiproiettile e un elmetto pesante, lo scenario diventa più militare, e più pericoloso.

Il secondo livello è percorso dal ronzio sordo degli aerei da guerra che sorvolano la zona, e delle unità irachene indisciplinate che si sono stabilite nelle case abbandonate. I corpi in decomposizione dei presunti combattenti dell’Is giacciono nei fossati per giorni interi.

Un soldato iracheno e un civile in moto tra Qayyarah e Mosul, il 28 ottobre 2016. (Bulent Kilic, Afp)

I rari civili presenti spazzano l’uscio delle loro porte. Un gesto che mi è parso assurdo in questo contesto. Ma più li guardavo e meglio capivo. Era al contempo una necessità e un tentativo di tornare a una vita normale.

Umm Ahmad è rientrata a casa sua con suo cognato dopo che le forze del Cts avevano cominciato a usare la sua casa come avamposto nel quartiere di Samah. Tra il suono dei colpi di mortaio che cadono tutt’intorno, mi spiega che preferisce sopravvivere in una Mosul parzialmente liberata che “ritrovarsi in un campo profughi dove non saprei quel che attende me e la mia famiglia”.

Il terzo livello di Mosul, nostra destinazione finale, è la linea del fronte, che ogni giorno si sposta dalle cinque alle dieci strade verso l’interno della città. Alcuni giorni sono stranamente silenziosi, con le forze del Cts che rafforzano le loro posizioni in vista di una nuova avanzata all’alba dell’indomani.

Nel sottofondo sonoro di quest’ultimo livello si mescolano lo scricchiolio degli spari dei cecchini, le esplosioni intermittenti delle autobombe e il crepitio incessante, intervallato dai bip, delle voci degli uomini del Cts che, nei walkie talkie, danno ordini o comunicano coordinate in un arabo fiorito che contrasta con la situazione d’emergenza.

“Cuore mio! Luce degli occhi! Siete gli eroi dell’Iraq, che dio vi protegga. Anima mia, miei eroi! Per amor di dio uscite da quella strada e mettetevi al riparo da quel cecchino”, esclama nel suo walkie talkie il tenente Ali Fadhel, che guida il reggimento di Najaf.

Solitamente, trascorriamo le nostre giornate sulla linea del fronte a Mosul.

Ma qualche volta raccontiamo anche altre storie, come il caos nell’ospedale di campagna alla periferia della città, oppure soggetti meno drammatici, come i meccanici che riparano gli Humvee e sostituiscono i vetri fatti esplodere dai cecchini dell’Is.

Una volta raccolto abbastanza materiale, rimettiamo a posto il nostro materiale e premiamo il tasto del riavvolgimento veloce. Passiamo dall’Humvee al nostro veicolo civile, togliamo i nostri giubbotti antiproiettile madidi di sudore ed estraiamo i computer portatili per inviarre le foto, i testi e i filmati.

Attraversiamo Gogjali senza praticamente alzare la testa, e lo stesso facciamo con i posti di blocco che quella stessa mattina abbiamo attraversato con tanta difficoltà, prima di ritrovare il nostro universo parallelo di Erbil.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è stato pubblicato sul blog Making-of dell’Agence France-presse. Nel blog, giornalisti e fotoreporter raccontano il loro lavoro.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it