Questo articolo è stato pubblicato il 15 febbraio 2019 nel numero 1294 di Internazionale.

Quando sui mezzi d’informazione si parla di populismo, di solito il termine è usato come se tutti conoscessimo già la sua definizione. E in effetti sappiamo più o meno di cosa si tratta, almeno finché ci limitiamo a citare gli avvenimenti che il populismo dovrebbe spiegare: la Brexit, Donald Trump, il dominio di Viktor Orbán in Ungheria, l’ascesa di Jair Bolsonaro in Brasile. Il termine evoca il risentimento della gente comune, amplificato da politici carismatici che fanno promesse impossibili. Spesso il populismo sembra uscito da un film dell’orrore: un batterio che è riuscito a intrufolarsi in qualche modo tra le difese della democrazia – aiutato, forse, da Steve Bannon o da qualche altro astuto stratega della manipolazione di massa – e che ora avvelena la vita politica, creando nuove truppe di elettori populisti tra “noi” (notate che gran parte di quello che si scrive sul populismo presuppone un pubblico ostile al fenomeno).

Non mancano le voci illustri che lanciano avvertimenti sulla pericolosità del populismo e sulla necessità di adottare misure immediate per combatterlo. L’ex premier britannico Tony Blair dirige l’Istituto per il cambiamento globale (Igc), un’organizzazione fondata, stando al suo sito, “per respingere l’atteggiamento distruttivo del populismo”. Nel suo rapporto del 2018 Human rights watch ha esortato le democrazie di tutto il mondo a non “capitolare” di fronte alla “sfida populista”. La nascita dei “movimenti populisti”, ha detto l’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama nell’estate del 2018, ha contribuito al boom globale “della politica della paura, del rancore e della chiusura” che apre la strada all’autoritarismo. “Non sono allarmista. Mi limito a constatare i fatti”, ha affermato.

Quando il populismo è inquadrato in questo modo, le implicazioni sono evidenti. Tutti i cittadini responsabili sono tenuti a fare la loro parte in questa battaglia: riconoscere il populismo quando lo vedono, capire i suoi richiami (senza farsi ingannare) e sostenere le politiche che ne fermano l’avanzata, salvando la democrazia. Ma l’accumularsi di editoriali concitati e rapporti di vari centri studi sulla minaccia populista ha scatenato la reazione scettica di quelli che si chiedono se il populismo esista davvero. Ormai è relativamente frequente incontrare l’idea che, così come a Salem non esistevano le streghe, in politica non esistono veri populisti, esistono solo persone, atteggiamenti e movimenti che i politici di centro non capiscono, anche se chi denuncia questo pericolo evita di spiegare esattamente perché. Il populismo, in questo quadro, è uno spaventapasseri: una non entità invocata allo scopo di alimentare la paura. Questa tesi si è fatta largo perfino tra gli stessi moderati. “Cancelliamo la parola ‘populista’”, ha scritto nel luglio del 2018 Roger Cohen, editorialista del New York Times. “È diventata così approssimativa da non significare più niente, un epiteto abusato e affibbiato a molteplici manifestazioni di rabbia politica. Peggio ancora, è carica di disprezzo ed è applicata a tutti gli elettori che hanno deciso che i partiti politici tradizionali non hanno fatto niente per il loro reddito, per la scomparsa dei posti di lavoro o per la sensazione di declino avvertita negli ultimi vent’anni”.

È difficile negare che tanto parlare di populismo oscura la questione invece di chiarirla, e ci dice più sui crociati dell’antipopulismo di quanto dica sui partiti o sugli elettori populisti. Ma molto prima che il populismo affascinasse i mezzi d’informazione sulle due sponde dell’Atlantico, un gruppo di studiosi lo stava già analizzando, nel tentativo di capire cosa fosse e quali lezioni potesse offrire alla politica democratica. Il dibattito che ne è nato, come molti altri dibattiti accademici, è complesso, autoreferenziale e destinato a restare nell’ombra del caos mediatico e del discorso politico. Ma ci aiuta a capire che l’idea di populismo è più di una semplice favola centrista. Grazie soprattutto alla persistente incapacità dei governi occidentali di realizzare qualcosa di simile a un progetto credibile di benessere e sicurezza per tutti nell’era postindustriale, oggi attraversiamo un periodo in cui le tradizionali reti di collegamento tra cittadini, ideologie e partiti politici stanno crollando o se non altro cominciano ad allentarsi e a spostarsi. Perciò la questione del populismo non sparirà. Nei prossimi anni probabilmente si moltiplicheranno i movimenti etichettati come populisti, i movimenti che si dichiarano populisti, i movimenti che per difendersi continueranno a ripetere di non essere populisti e le discussioni su quanto il populismo rappresenti il problema o la soluzione.

Il dibattito accademico sul fenomeno dimostra che per capire quello che sta succedendo non basta una semplice definizione del termine. Insomma, non possiamo parlare davvero di populismo senza parlare delle nostre contrastanti concezioni di democrazia e di cosa realmente significa per i cittadini essere sovrani.

Berkeley, Stati Uniti. Un comizio dell’estremista di destra Milo Yiannopoulos, 2017. - Mark Peterson, Redux/Contrasto
Berkeley, Stati Uniti. Un comizio dell’estremista di destra Milo Yiannopoulos, 2017. (Mark Peterson, Redux/Contrasto)

È forse significativo che il dibattito pubblico sulla presunta minaccia populista alla democrazia abbia riguardato solo in minima parte il funzionamento della democrazia stessa. Forse diamo per scontato, senza pensarci troppo, che quella di democrazia sia un’idea di per sé così chiara e lampante che sappiamo già tutto ciò che c’è da sapere sull’argomento. O forse siamo arrivati a considerare la democrazia nella sua forma occidentale – sostanzialmente la democrazia liberale – come l’unico possibile punto d’arrivo per l’evoluzione della politica. Il populismo, anche se si presenta in molte forme, ci ricorda sempre che niente potrebbe essere più lontano dalla verità.

Una colonna portante

Nel 2004 il politologo olandese Cas Mudde pubblicò The populist zeitgeist, un articolo scientifico che proponeva una nuova e concisa definizione di populismo, destinata a diventare la colonna portante degli studi accademici sul tema. Mudde era convinto che il populismo fosse un concetto utile, con un significato più specifico di democrazia, ma usato in un modo che trovava “sgradevole”. Voleva in particolare smentire due percezioni comuni sul populismo: che sia definito soprattutto da una retorica “altamente emotiva e semplicistica” e che consista per lo più in “politiche opportunistiche” volte a “comprare” il sostegno degli elettori.

Il populismo, diceva Mudde, non è solo demagogia e opportunismo. Ma non è un’ideologia politica compiutamente formata come il socialismo o il liberalismo, è piuttosto una thin ideology, un’ideologia esile composta da poche convinzioni di fondo. Primo: nella società la divisione più importante è quella antagonistica tra “il popolo”, inteso come sostanzialmente buono, e “l’élite”, intesa come sostanzialmente corrotta e non in sintonia con la vita della gente comune. Secondo: tutti i populisti credono che la politica debba essere un’espressione della “volontà generale”, un insieme di desideri che si presumono condivisi per puro buonsenso da tutte le “persone comuni” (una convinzione che ne implica un’altra: che esista una “volontà generale”).

È populista, quindi, un movimento che promette coerentemente di incanalare la volontà unificata del popolo, minando così le trame egoistiche dell’élite al potere. Come disse nel 2007 il fondatore del partito francese di destra Front national, Jean-Marie Le Pen, “darò voce al popolo. Perché in democrazia solo il popolo può avere ragione, e nessuno può avere ragione contro di lui” (notate come, in questa formulazione, non ci sia disaccordo “all’interno del popolo”). O, secondo le parole pronunciate dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump nel suo discorso d’insediamento: “Stiamo spostando il potere da Washington per restituirlo a voi, il popolo. L’establishment ha protetto se stesso, ma non i cittadini del nostro paese” (notate che i componenti dell’establishment sono implicitamente separati dai cittadini).

Alla conquista dei giovani
In tutto il continente la destra populista raccoglie consensi tra ragazzi e ragazze, spaventati dai problemi economici e insofferenti verso gli immigrati

Quando The populist zeitgeist fu pubblicato, il populismo non era un argomento di moda: in tutto il 2005 l’articolo di Mudde ebbe solo nove citazioni. Ma ora che il campo degli studi sul populismo si è esteso a dismisura, è diventato un classico. Mudde è lo studioso più citato e intervistato dai giornalisti, spesso per articoli in cui la sua definizione è mescolata alle stesse vecchie e sciatte generalizzazioni che Mudde voleva confutare.

Oggi nessuno studioso mette in discussione l’influenza dominante della definizione di Mudde. Un importante fattore del suo successo, in effetti, è che ha anticipato gli avvenimenti della politica mondiale. Il crollo dei mercati nel 2008 ha portato alla nascita di movimenti antiausterità – come Podemos in Spagna o Syriza in Grecia – motivati dalla rabbia contro le istituzioni finanziarie e la ristretta classe di persone che aveva beneficiato dei loro profitti. Questi movimenti erano chiaramente animati da un senso di opposizione tra “il popolo” e “l’élite”, ma le vecchie teorie del populismo che lo definivano di destra, razzista o ostile agli immigrati non erano in grado di interpretare i nuovi sviluppi.

Schemi ampi

La definizione di ideologia esile è anche estremamente congeniale al panorama delle scienze politiche di oggi, pronte a privilegiare gli schemi ampi che consentono ai giovani ricercatori di svolgere un lavoro empirico e quantitativo. Molti nuovi studiosi del populismo non sentono più la necessità di discutere le definizioni. Si dedicano invece ad analisi testuali che hanno lo scopo di individuare quante volte le idee centrali del populismo, com’erano state esposte da Mudde, spuntano fuori nei programmi dei partiti, nei discorsi politici, nei manifesti e nei tweet. Oppure fanno sondaggi per individuare la prevalenza delle idee populiste in diverse popolazioni, in cerca dei profili degli elettori populisti. Ogni volta che viene pubblicato un articolo sullo schema ideologico del populismo, quella definizione si consolida ancora di più, provocando una certa frustrazione nella minoranza di studiosi tuttora convinti che non colga il nocciolo della questione.

San Diego, Stati Uniti. Un comizio del democratico Bernie Sanders nel 2016. - Mark Peterson, Redux/Contrasto
San Diego, Stati Uniti. Un comizio del democratico Bernie Sanders nel 2016. (Mark Peterson, Redux/Contrasto)

L’affermarsi della definizione basata sull’ideologia esile e la sua crescente influenza nel dibattito pubblico hanno sistematicamente provocato le obiezioni di un piccolo ma tenace schieramento di studiosi dissidenti. Questi ritengono che definire il populismo in termini di convinzioni di fondo sia un grave errore metodologico, e molti di loro pensano anche che definire il populismo un’ideologia comporti il rischio di far sembrare irresponsabili e perfino pericolose delle strategie politiche che in realtà sono efficaci e vantaggiose.

Questi studiosi fanno notare che negli ultimi decenni in Europa e negli Stati Uniti i principali partiti politici hanno finito per convergere sempre di più, restringendo il ventaglio delle opinioni realmente prese in considerazione nel processo decisionale. Danno anche per scontato che tutto ciò abbia convinto moltissime persone del fatto che quella che chiamiamo democrazia risponda ben poco alle loro preoccupazioni e molto di più ai capricci di un’élite ristretta, ricca e autoreferenziale. Un’élite che nega la sua complicità in questo stato di cose, ripetendo spesso che non esistono alternative.

Com’è facile immaginare, questi studiosi tendono a essere più interessati alle sfide allo status quo che arrivano dalla sinistra – dal 99 per cento di Occupy Wall street e di Sanders a “i molti, non i pochi” del Partito laburista di Jeremy Corbyn – e ribadiscono che la politica non è ancora al servizio dell’elettorato giusto. Sono anche istintivamente attenti alla possibilità che il centro, interessato alla propria salvaguardia, cerchi di disarmare le sfide degli outsider, facendoli sembrare irragionevoli, minacciosi e costituzionalmente impreparati al compito di governare.

I regimi autoritari non nascono da un giorno all’altro
La tirannia si afferma a piccoli passi, erodendo gradualmente le libertà dei cittadini. Da Russia, Singapore, Nicaragua e Ungheria, quattro persone spiegano com’è cominciata nel loro paese, in un video del New York Times.
 

Questo li fa sospettare di chiunque suggerisca che esiste un’ideologia identificabile chiamata populismo, indipendentemente da dove si collochi nello spettro politico. Per questi studiosi parlare di un’essenza del populismo – per quanto esile – sfocia troppo facilmente in un’accusa di colpevolezza per associazione, il che inevitabilmente ha l’effetto di caricare sui movimenti populisti di sinistra (o perfino sui movimenti che sembrano populisti) il bagaglio delle loro controparti di destra xenofobe e razziste. Più precisamente, temono che l’enfasi sull’esagerato moralismo come caratteristica essenziale del populismo renda troppo facile dipingere l’opposizione legittima al potere delle élite come una folla irrazionale.

Quasi tutte le obiezioni alla definizione di ideologia esile sono in debito con due teorici politici di sinistra: Chantal Mouffe, una belga che insegna all’università di Westminster, e il suo defunto marito, l’argentino Ernesto Laclau. I due pensatori hanno ispirato i movimenti populisti di sinistra in Europa, compresi Syriza, Podemos e La France insoumise di Jean-Luc Mélenchon. Le loro opere su marxismo e populismo sono complesse e a volte difficili da sintetizzare, ma al centro c’è l’idea che il conflitto è una caratteristica distintiva e insopprimibile della politica. In altri termini, la politica è un campo in cui l’antagonismo è naturale e inevitabile, il consenso non può mai essere permanente e c’è sempre un “noi” e un “loro”.

“Le questioni politiche non sono semplicemente problemi tecnici che devono essere risolti da esperti”, dice Mouffe. “Implicano sempre decisioni che ci impongono una scelta tra alternative in conflitto tra loro”. Questa enfasi sul conflitto genera una visione della vita democratica più radicale rispetto alle narrazioni tradizionali della democrazia liberale ma, sosterrebbero Laclau e Mouffe, è una visione che descrive con più precisione la vera logica della politica.

Los Angeles, Stati Uniti, 21 gennaio 2019. Una manifestazione per la costruzione del muro al confine con il Messico. - Mark Peterson, Redux/Contrasto
Los Angeles, Stati Uniti, 21 gennaio 2019. Una manifestazione per la costruzione del muro al confine con il Messico. (Mark Peterson, Redux/Contrasto)

In quest’ottica qualunque ordine sociopolitico esistente è soggetto a essere sfidato. Qualunque status quo – per quanto solido – è solo temporaneo, e può sempre essere sfidato da un movimento che cerca di sostituirlo con qualcosa di nuovo. Il cambiamento politico è il risultato di richieste contro l’ordine esistente, che devono fondersi in un movimento per cambiarlo, un movimento che può somigliare molto al populismo.

Quando le mie richieste, le vostre richieste e le richieste dei nostri vicini si uniscono in un movimento di questo tipo, possono diventare la base per un nuovo “noi” politico: un “popolo” che vuole cambiare l’attuale organizzazione del potere. Nella misura in cui ha successo, un movimento di questo tipo crea una nuova egemonia – una nuova linea di partenza – che a sua volta con il tempo può essere rimessa in discussione.

Visto da questa prospettiva, il populismo è semplicemente un sinonimo per politica vera: il popolo (noi) che crea insieme, dal vivo e sul terreno, un’idea di come sono collegate le nostre insoddisfazioni, di chi bisogna incolpare (loro) e di come imporre un cambiamento.

Ma i beneficiari dello status quo non vogliono che le cose cambino e per questo potrebbero promuovere una serie di strategie che imbrigliano un processo decisionale collettivo: il consenso bipartisan fine a se stesso, la superiorità degli esperti “razionali” sulle teste calde, la “terza via” centrista che rifugge dal conflitto ideologico in favore di “cosa funziona” o la mediazione delle istituzioni liberali. Queste strategie (Mouffe le chiama “non politica”) possono prevalere per qualche tempo, ma niente dura in eterno, soprattutto quando cresce il numero di persone convinte che i politici stiano rendendo più precaria la loro esistenza. E allora la politica – la politica vera, cioè la politica populista – fa il suo ritorno.

Secondo Mouffe e Laclau, l’unico rapporto intrinseco tra movimenti populisti di destra e di sinistra è che condividono la stessa verità di fondo sulla democrazia: che è una competizione in perenne mutamento su come si definisce e ridefinisce il classico “noi” della politica, in cui nessuna definizione ha la garanzia di durare. L’obiettivo, sostengono i due studiosi, non dovrebbe essere un placido consenso ma “un pluralismo agonistico”: uno stato in cui l’opposizione e il disaccordo sono accettati come norma, e in cui le persone conservano la capacità di dissentire energicamente senza demonizzarsi e senza scendere in guerra.

Mouffe negli ultimi anni ha sostenuto che il problema politico dell’immediato futuro non è come combattere il populismo, ma piuttosto che tipo di populista vuoi essere. Il problema è con chi stai (chi appartiene alla tua “catena di equivalenza”), contro chi stai (chi sta causando il problema e come) e dove ti schieri. Il populismo non è il problema: invece, il populismo di sinistra è la soluzione.

Non tutti gli studiosi che s’ispirano a Mouffe e Laclau si spingono fino a questo punto, soprattutto sulle compassate pagine delle riviste di scienze politiche. Ma il loro lavoro è chiaramente motivato dalla sensazione che la vera minaccia del “populismo” è che il panico per questa parola precluda la possibilità di nuovi tipi di politica e di nuove sfide allo status quo, e che la paura del populismo di sinistra spiani la strada al populismo di destra.

La preferenza di questi studiosi è per le definizioni che lo privano di sostanza ideologica, perfino di quella “esile” teorizzata da Mudde. Per loro, anche se ha il merito di riconoscere la portabilità ideologica del populismo, la definizione “esile” è ancora irrevocabilmente contaminata da implicazioni peggiorative che spingono chi partecipa ai dibattiti sul populismo a prendere posizione “a favore” o “contro” ogni populismo. Senza un’essenza interiore è più difficile catalogare il populismo come intrinsecamente buono o cattivo. Paris Aslanidis, un politologo dell’università di Yale, definisce il populismo un “discorso” – un modo di parlare di politica più che un insieme di convinzioni – che inquadra la politica in termini di “supremazia della sovranità popolare”.

Benjamin Moffitt, politologo dell’Australian catholic university, parla del populismo come di uno “stile politico”, la cui presenza “ci dice ben poco sul concreto contenuto democratico di qualunque progetto politico”. In base a definizioni di questo tipo, la questione centrale non è se un certo leader o gruppo politico è o non è populista. È piuttosto se, un momento dopo l’altro, stanno “facendo del populismo”, e come e con quali risultati.

Bagaglio peggiorativo

Naturalmente queste discussioni non riguardano davvero la differenza tra una “ideologia esile” e un “discorso”. La questione è piuttosto se “populista” sia sempre un insulto, e se il progetto di definire il populismo possa sbarazzarsi del bagaglio peggiorativo di questo concetto. In ultima istanza sono discussioni su quali tipi di politica ci insospettiscono e perché. Il dibattito attuale sul populismo in occidente è fortemente colorato dai partiti populisti di estrema destra emersi in Europa tra la fine degli ottanta e i primi anni novanta, come il Partito della libertà austriaco, il Partito popolare danese e il Front national francese. All’inizio quasi tutti sapevano che si trattava di partiti apertamente nativisti e razzisti. Parlavano dei “veri” cittadini dei loro paesi ed erano fissati sulla questione della “purezza” nazionale ed etnica, perciò demonizzavano immigrati e minoranze. I loro leader strizzavano l’occhio all’antisemitismo e le loro vittorie elettorali coincidevano con una ripresa della violenza di estrema destra in Europa, come l’attacco del 1991 contro i lavoratori immigrati e i richiedenti asilo a Hoyerswerda, in Germania.

Quando giornalisti e politici cominciarono a definire populisti questi partiti e i loro sostenitori, il termine era una manifestazione d’allarme per il problema e, allo stesso tempo, un eufemismo che permetteva di glissare sulla natura esatta di quel problema. Questo era particolarmente utile per i giornalisti, che temevano di non essere considerati politicamente neutrali. Populista chiaramente non era un complimento, ma suonava meno inquietante di “estrema destra” o “destra radicale”. Il termine sembrava comunicare soprattutto arretratezza: un’incapacità giovanile di portare le proprie preferenze nell’arena politica e impegnarsi nel complicato dare e avere del compromesso razionale. La combinazione populista di immaturità, risentimento emotivo e intolleranza era considerata da molti una minaccia per la democrazia europea.

Per un verso la definizione di ideologia esile resa popolare da Mudde smantellava questa visione, liberando il populismo dalle sue connotazioni esclusivamente di estrema destra e mettendo in guardia contro la fusione del populismo con gli altri -ismi a cui era spesso avvicinato.

In realtà Mudde e molti altri studiosi che definiscono il populismo un’ideologia hanno ripetutamente sostenuto che né Trump né la Brexit andrebbero considerati innanzitutto fenomeni populisti. Naturalmente sia Trump sia i sostenitori della Brexit hanno fatto ampio ricorso alla retorica populista, ma in entrambi i casi l’appoggio della maggioranza è stato motivato non dalla passione per le idee centrali del populismo, ma da altri fattori ideologici. Quando il dizionario Cambridge ha proclamato populismo “parola dell’anno” nel 2017, Mudde ha scritto un breve articolo sul Guardian criticando la decisione. “È diventato il termine più in voga di quest’anno”, ha osservato piuttosto acidamente, “soprattutto perché spesso è definito in modo impreciso e usato in modo sbagliato”. Per i partiti di estrema destra che con le loro campagne elettorali nei Paesi Bassi, in Francia, Germania e Austria hanno suscitato allarme in tutta Europa, “il populismo è secondario rispetto al nativismo, e nell’attuale politica europea e statunitense il populismo funziona nella migliore delle ipotesi come una confusa cortina per mascherare il ben peggiore nativismo”, concludeva Mudde.

Eppure, nonostante queste precisazioni, in quanto ideologia esile il populismo implica sempre una sorta di minaccia maggioritaria alla democrazia liberale. Questo giudizio continua ad alimentare la battaglia tra gli studiosi che adottano la definizione di Mudde e i loro avversari ispirati da Mouffe e Laclau.

La democrazia liberale, in questo contesto, non ha quasi niente a che fare con le attuali distinzioni tra destra e sinistra. Fa riferimento piuttosto all’idea che il governo debba favorire la coesistenza pluralistica equilibrando l’ideale di sovranità popolare – mai pienamente raggiungibile – con istituzioni chiamate a consacrare lo stato di diritto e i diritti civili, cosa che una maggioranza politica non può facilmente rovesciare (a questo proposito, come scrive Mudde nel suo primo articolo, la democrazia liberale è “quindi democratica solo in parte”). Oggi la democrazia liberale è quello che quasi tutti intendono quando parlano di democrazia, perciò in molte discussioni politiche essere considerati una minaccia alla democrazia liberale è un giudizio spaventosamente negativo.

L’ultima speranza per la democrazia
Il 2024 è stato un anno di successi per l’estrema destra, culmine di una tendenza di lungo periodo alimentata dalle scelte dei moderati. Ma le cose possono cambiare

Dal momento che il populismo, com’è descritto da Mudde, implica una concezione moralistica di un “popolo” sovrano le cui decisioni sono considerate di fatto unanimi, è inevitabile che i movimenti populisti entrino in conflitto con gli aspetti liberali della democrazia liberale.

Se tutte le persone “vere” la pensano allo stesso modo sulle cose che contano di più in politica, allora l’idea di garanzie istituzionali per la minoranza dissenziente è nella migliore delle ipotesi superflua e nella peggiore nefasta. Per i populisti queste garanzie sono solo l’ennesimo muro costruito dall’élite corrotta per togliere il potere al popolo. Lo stesso vale per l’indipendenza dei giudici e delle autorità di controllo, o per il sistema di pesi e contrappesi tra i rami del governo, soprattutto quando sembrano intralciare i piani di un leader populista. Per questo gli elementi fondamentali della democrazia liberale diventano miccia e benzina per il fuoco populista.

Nessuno che si occupi seriamente della questione – neppure i più opportunisti tra i partecipanti alla campagna di allarmismo antipopulista – nega che questi movimenti possano muovere valide critiche allo status quo e al potere antidemocratico delle élite. Molti hanno un punto di vista simile a quello del teorico politico messicano Benjamin Arditi, che ha paragonato il populismo a un ospite ubriaco alla cena della democrazia, un ospite che non rispetta le regole della buona società e, tra una cosa e l’altra, ricorda i fallimenti e le ipocrisie che tutti gli altri nella stanza sono d’accordo nell’ignorare. Nel suo libro Populism: a very short introduction, Mudde e uno studioso che spesso collabora con lui, il politologo cileno Cristóbal Kaltwasser, definiscono il populismo una “reazione democratica illiberale a un liberalismo non democratico”, una reazione che “fa le domande giuste ma dà le risposte sbagliate”.

Leggendo i critici di sinistra, però, si ha spesso la sensazione che per loro questo equivalga a indorare la pillola: una spruzzata di sfumature e di moderazione che lascia ancora il populismo, di qualunque matrice ideologica, con un’immeritata macchia di pericolo intrinseco. Lo scontento di questi critici è amplificata dal fatto che il populismo difficilmente appare nelle discussioni più comuni come qualcosa di diverso da un insulto, spesso sulla bocca di esperti e politici che considerano destra e sinistra ugualmente minacciose.

Il timore in questi ambienti è che esprimere una qualunque considerazione negativa sul “populismo” – per quanto qualificata e analitica – finisca semplicemente per dare più armi alle stesse persone che hanno contribuito a rendere la politica un caos vuoto e non democratico. In quest’ottica presentare qualunque populismo come sostanzialmente antitetico alla democrazia liberale non fa che rafforzare l’associazione tra populismo e psicologia della folla, alimentando il timore che i diritti individuali saranno sempre sopraffatti dalle identità di gruppo.

Alcuni studiosi in questo campo ora sostengono che dovremmo parlare meno di populismo e più “dell’antipopulismo” centrista che lo teme e lo demonizza. “Come il coniuge adultero è sempre il più sospettoso nei confronti del proprio partner”, ha scritto il giornalista italiano Marco D’Eramo nel 2013 sulla New Left Review (e su Micromega in Italia), “così chi più attenta alla democrazia, più vede minacce dappertutto. Straparlare di populismo fa trapelare quindi un senso di colpa, una coda di paglia, il sentore di stare esagerando, di andarci giù troppo duri”.

Per ogni schieramento del dibattito, la tentazione evidente è di liquidare l’altro o di insistere sul fatto che ciò che l’altro campo definisce “populismo” in realtà è solo qualcosa di populisteggiante. Ma concludere che parlano lingue diverse o che si tratta di un dialogo tra sordi significherebbe non capire fino a che punto sono d’accordo e cosa ci dicono, presi nel loro insieme, sulla situazione politica attuale.

Agricoltori statunitensi

Nel 1967, quando i teorici politici di tutto il mondo si riunirono alla London school of economics per la prima conferenza accademica sul populismo mai organizzata, ebbero difficoltà a capire di cosa avrebbero dovuto parlare. Il termine derivava da “populisti della prateria”, un movimento di agricoltori statunitensi degli anni novanta dell’ottocento che chiedeva una regolamentazione più severa del capitalismo. Ma nei decenni successivi era stato usato per un’ampia e variegata accozzaglia di fenomeni in tutto il mondo, dalla caccia alle streghe maccartista negli Stati Uniti ai leader carismatici latinoamericani. Alla fine, i lavori della conferenza non riuscirono a chiarire la questione.

Mezzo secolo dopo si registrano alcuni progressi. Il populismo, convengono ora gli specialisti, è un modo ideologicamente mobile di guardare alla politica come a un luogo per l’opposizione tra “popolo” ed “élite”. Questa definizione crea ulteriori domande: il “popolo” astratto del populismo è intrinsecamente definito come qualcosa che rappresenta un pericolo per la coesistenza pluralistica? O, meno minacciosamente, l’idea di “popolo” è forse un concetto necessario ma sempre malleabile, semplicemente una parte di ciò che significa fare politica? Ma il populismo, qualunque cosa sia, non è una sostanza chimica: nessuno scienziato ci rivelerà mai la sua composizione. Il populismo è una lente per osservare la nostra politica, compresa la politica di ciò che viene definito populista.

La questione del populismo non avrebbe tanta urgenza se non ci fosse un così ampio consenso sui difetti dello status quo: sull’abisso tra gli sfolgoranti ideali dell’uguaglianza e la fosca realtà della vita vera. L’idea che la politica non fa un buon servizio al “popolo” ha vasta eco in tutto lo spettro politico, e per valide ragioni. Ma qual è il rimedio? Tra quelli che difendono la definizione ideologica, alcuni evitano di dare una risposta, sostenendo che vogliono solo definire e misurare il populismo. Altri ammettono che, nel caso del populismo, fornire una descrizione senza formulare un giudizio è di fatto impossibile. L’ordine del giorno, secondo loro, è convincere i cittadini a impegnarsi di nuovo per la democrazia liberale e le sue istituzioni.

In questo campo tuttavia è ampiamente diffusa la consapevolezza che non basterà più insistere sulla mancanza di alternative accettabili alla democrazia liberale esistente. Scrivendo sul Guardian nel 2017, Mudde ha sostenuto che per rispondere al populismo non bastano le “campagne puramente antipopuliste”, ma occorrerà “un ritorno alla politica ideo-logica”. Perfino i liberali che vogliono “spoliticizzare” alcune questioni – sottrarle al dominio della democrazia e affidarle a esperti – dovranno trovare nuovi argomenti per spiegare quelle decisioni. Niente può restare spoliticizzato per sempre: è la politica.

Se strizzate un po’ gli occhi, somiglia abbastanza a quello che ci aspetteremmo da Laclou e Mouffe: i due studiosi insistono che non c’è spazio “al di là di destra e sinistra” e non c’è modo di collocare le decisioni politiche fuori dall’ambito della politica. Potreste dire che i difensori della democrazia liberale sono improvvisamente riportati alla necessità di costruire un “noi” democratico – un popolo – intorno alla loro richiesta di proteggere le istituzioni e le procedure liberali, in opposizione ai partiti della destra radicale che sono ben contenti di vederle eliminate. La sfida corrispondente per chiunque sia più a sinistra è capire il rapporto tra i loro obiettivi a lungo termine e gli ideali della democrazia liberale. Ci sono sempre stati teorici per i quali la democrazia liberale è una falsa democrazia: una serie di princìpi universali che suonano bene ma che, in pratica, funzionano da cortina fumogena per normalizzare lo sfruttamento e le disuguaglianze del capitalismo.

Prospettive radicali

Altri studiosi, Mouffe compresa, vedono qualcosa di simile alla socialdemocrazia europea degli anni sessanta e settanta come il presupposto per qualunque cosa venga dopo, per la “democrazia radicale” che costringe la democrazia liberale a tenere fede alle sue promesse di uguaglianza. Ma perfino Mouffe ormai non è ottimista sulla nostra capacità di rilanciare le prospettive democratiche. Due anni fa scriveva: “Nel 1985 abbiamo detto ‘dobbiamo radicalizzare la democrazia’; ora dobbiamo prima ripristinare la democrazia, in modo da poterla poi radicalizzare; il compito è molto più difficile”. Come sarà quel compito nella realtà è una questione aperta.

Il modo in cui i mezzi d’informazione affrontano la questione del populismo suona quasi sempre come una discussione sui margini: sulle forze al di fuori della politica “normale” o “razionale” che minacciano di far saltare l’equilibrio dello status quo.

Ma il discorso degli studiosi chiarisce che è vero il contrario: il populismo è intrinseco alla democrazia, e soprattutto alla democrazia come la conosciamo nell’occidente contemporaneo. Trova vita nelle crepe tra le promesse della democrazia e l’impossibilità di una loro piena e stabile realizzazione.

La questione del populismo, allora, riguarda sempre che tipo di democrazia vogliamo, e il fatto che non smetteremo mai di discuterne. L’ansia provocata dal populismo può essere una cortina fumogena per chi non vuole che il mondo attuale sia disturbato. Ma deriva anche dall’intuizione fondamentale che è impossibile sapere esattamente dove ci porterà la democrazia: né questa volta né la prossima né un’altra volta ancora.

Questo articolo è stato pubblicato il 15 febbraio 2019 nel numero 1294 di Internazionale.

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