Questo articolo è stato pubblicato il 27 agosto 2010 nel numero 861 di Internazionale.
Oggi siamo tutti europei. Gli inglesi viaggiano in lungo e in largo per il continente, e la Gran Bretagna è un’importante destinazione turistica e una calamita per gente alla ricerca di un lavoro, in arrivo dalla Polonia come dal Portogallo. I viaggiatori di oggi non ci pensano due volte a salire su un aereo o su un treno per scendere poco dopo a Bruxelles, Budapest o Barcellona. Certo, un europeo su tre non si allontana mai da casa, ma tutti gli altri se ne vanno con spensierata disinvoltura. Perfino le frontiere (interne) sono svanite: può volerci un po’ di tempo prima che vi rendiate conto di essere entrati in un altro paese.
Non è stato sempre così. Durante la mia infanzia londinese, “l’Europa” era un posto dove si andava per vacanze esotiche. Il “continente” era un luogo alieno: sapevo molto di più sulla Nuova Zelanda o sull’India, la cui imperiale geografia veniva insegnata in ogni scuola elementare. La maggior parte delle persone non si avventurava mai all’estero: le ferie si passavano in località spazzate dal vento sulla costa inglese o in festosi villaggi vacanza nazionali. Ma una caratteristica particolare della nostra famiglia (un effetto collaterale dell’infanzia belga di mio padre?) era che attraversavamo la Manica piuttosto spesso, sicuramente più di tante famiglie della nostra fascia di reddito.
Le celebrità andavano a Parigi in aereo, i comuni mortali prendevano la nave. C’erano traghetti da Southampton, Portsmouth, Newhaven, Folkestone, Harwich o più a nord, ma la rotta classica – e di gran lunga la più frequentata – attraversava l’imboccatura della Manica da Dover a Calais o Boulogne. Le ferrovie britanniche e quelle francesi (Sncf) monopolizzarono la traversata fino agli anni sessanta. La Sncf usava ancora un piroscafo prebellico, la Dinard, e le automobili dovevano essere caricate sul ponte con la gru, una dopo l’altra. L’operazione richiedeva un tempo incredibilmente lungo, anche se all’epoca erano in pochi a usufruire di questo servizio. Perciò la mia famiglia cercava sempre di programmare i viaggi in coincidenza con la partenza dell’ammiraglia della British Railways, il traghetto Lord Warden.
L’ammiraglia dei traghetti da Dover a Calais o Boulogne era la Lord Warden. Dalla vasta e luminosa sala da pranzo ai saloni in semipelle, la nave prometteva lusso e avventure
A differenza della Dinard, un’imbarcazione minuscola che con il mare mosso beccheggiava e rollava in modo allarmante, la Lord Warden era una nave solida, capace di ospitare un migliaio di passeggeri e 120 auto. Prendeva il nome da lord Warden of the Cinque Ports, i cinque centri costieri a cui nel 1155 vennero concesse libertà speciali in cambio dei servigi resi alla corona inglese. Calais era stata un possedimento inglese dal 1347 al 1558 e un servizio di traghetti da Dover era già attivo in quegli anni, perciò la nave era stata battezzata degnamente.
Nei miei ricordi la Lord Warden, che entrò in servizio nel 1951 e non disarmò fino al 1979, è una nave spaziosa e moderna. Dal grande ponte per le auto alla vasta e luminosa sala da pranzo ai saloni in similpelle, la nave prometteva lusso e avventure. Io spingevo i miei genitori a far colazione, occupando un tavolo vicino all’oblò e lanciando occhiate concupiscenti al menù, tradizionale fino al midollo. A casa mangiavamo cereali senza zucchero, bevevamo succhi non zuccherati e spalmavamo sul nostro pane di segale della semplice marmellata. Ma questa era terra di vacanza, un periodo sottratto alla salute, ed erano ammessi degli strappi alla regola.
Mezzo secolo dopo, associo ancora i viaggi sul continente alla vera prima colazione inglese: uova, bacon, salsicce, pomodori, fagioli, pane bianco, dense confetture e il cacao della British Railways, ammucchiati su pesanti piatti bianchi decorati con il nome della nave e dei suoi proprietari, e serviti da allegri camerieri della Londra popolare che avevano prestato servizio nella marina mercantile durante la guerra. Dopo la colazione, ci arrampicavamo sugli ampi ponti gelati (a quei tempi la Manica sembrava implacabilmente fredda) e scrutavamo con impazienza l’orizzonte: quello è Cap Gris Nez? Boulogne appariva luminosa e assolata, in contrasto con la bassa foschia grigia che avvolgeva Dover. Si sbarcava con l’ingannevole sensazione di aver percorso una grande distanza e di essere arrivati non nella fredda Piccardia ma nell’esotico sud.
Boulogne e Dover erano diverse in un modo che oggi è difficile spiegare. Le lingue erano più lontane: la maggior parte degli abitanti delle due città, malgrado un millennio di comunicazioni e di scambi, restava monolingue. I negozi erano molto diversi: la Francia era ancora decisamente più povera dell’Inghilterra, almeno nell’insieme. Ma noi avevamo il razionamento e loro no, perciò anche le più umili épiceries esponevano prodotti da mangiare e da bere sconosciuti e inaccessibili agli invidiosi visitatori inglesi. Ricordo di aver notato fin dai miei primi anni come profumasse la Francia: mentre l’odore prevalente di Dover era un misto di olio fritto e gasolio, Boulogne sembrava marinata nel pesce.
Non era necessario attraversare la Manica in macchina, anche se l’esistenza di un traghetto costruito apposta per le auto annunciava cambiamenti futuri. A Londra si poteva prendere il treno speciale da Charing Cross al porto di Dover, salire a bordo e scendere dalla passerella in Francia entrando direttamente in una vecchia stazione malconcia, dove vi aspettavano l’uniforme verde oliva e i compartiments soffocanti della Sncf. Per il viaggiatore più danaroso o più romantico c’era la Freccia d’oro: un espresso quotidiano dalla stazione Victoria alla Gare du Nord, inaugurato nel 1929 e trasportato da navi traghetto dotate di binari, dove i passeggeri erano liberi di restare comodamente seduti ai loro posti per tutta la traversata.
Una volta lasciate le acque costiere, il commissario di bordo annunciava all’altoparlante che il negozio era aperto. Il negozio, devo precisare, era un bugigattolo angusto a un’estremità del ponte principale, indicato da una piccola insegna luminosa e gestito da un unico cassiere. Facevi la fila, consegnavi la tua lista e aspettavi la borsa, un po’ come un beone imbarazzato in uno spaccio di alcolici svedese. A meno che, ovviamente, tu non avessi ordinato merce che andava oltre il limite del duty free, nel qual caso ti avrebbero fornito le opportune informazioni e consigliato di ripensarci.
Sulla rotta di partenza il negozietto non lavorava granché: la Lord Warden aveva ben poco da offrire che non potesse essere acquistato meglio e più a buon prezzo in Francia o in Belgio. Ma nella traversata di ritorno per Dover gli affari andavano a gonfie vele. I viaggiatori inglesi al rientro avevano diritto a una quota di alcol e sigarette rigidamente limitata, perciò compravano tutto quello che potevano: le nostre imposte sui consumi erano punitive. Il negozio rimaneva aperto per 45 minuti al massimo, quindi non faceva grossi profitti, ed era chiaramente offerto come un servizio aggiuntivo piuttosto che gestito come vera e propria attività commerciale.
Alla fine degli anni sessanta e settanta le navi furono minacciate dalla comparsa dell’hovercraft, un aliscafo che galleggia su una bolla d’aria ed è spinto da due eliche. Le compagnie che li gestivano non riuscivano a prendere una decisione sulla loro identità, un difetto tipico degli anni sessanta. In sintonia con quegli anni, si facevano pubblicità cercando di apparire moderni ed efficienti, con slogan tipo: “È molto meno faticoso con l’hovercraft”, ma le loro sale partenze erano volgari imitazioni di aeroporti senza la promessa del volo. Quanto alle imbarcazioni, obbligandoti a rimanere seduto mentre procedevano sballottando claustrofobicamente sulle onde, subivano tutti i difetti dei viaggi per mare rinunciando ai suoi pregi distintivi. Non piacevano a nessuno.
Oggi la traversata della Manica avviene a bordo di nuovi traghetti molto più grandi della Lord Warden. La disposizione degli spazi è molto diversa: la stanza da pranzo è relativamente piccola e sottoutilizzata, sopraffatta da self service stile McDonald’s. Ci sono sale giochi, saloni di prima classe (si paga sulla porta), aree per bambini, bagni molto migliori e un duty free più grande di un supermercato. È perfettamente ragionevole: visto che esistono tunnel per le auto e per i treni, per non parlare di linee aeree ultracompetitive ma senza tanti fronzoli, il motivo principale per prendere un traghetto è fare acquisti.
E così, proprio come noi ci precipitavamo a colazione per occupare il posto vicino all’oblò, i passeggeri dei traghetti di oggi passano il viaggio (e spendono rilevanti quantità di denaro) comprando profumi, cioccolata, vino, liquori e tabacco. Grazie ai cambiamenti nel regime fiscale su entrambe le sponde della Manica, però, non c’è più un grosso vantaggio economico negli acquisti al duty free: sono diventati fini a se stessi.
I nostalgici farebbero bene a evitare questi traghetti. Non troppo tempo fa, durante un viaggio, ho cercato di osservare l’arrivo a Calais dal ponte. Sono stato seccamente informato che adesso tutti i ponti vengono tenuti chiusi, e che se insistevo per rimanere all’aperto avrei dovuto unirmi ad altri eccentrici come me, imbrancati in una zona circondata di funi su una piattaforma a poppa e più in basso. Da lì non si vedeva niente. Il messaggio era chiaro: i turisti non dovevano perdere tempo (e risparmiare soldi) vagando sui ponti. Questa politica – anche se non viene seguita sui traghetti lodevolmente anacronistici della Brittany Ferries, di proprietà francese – è universalmente applicata sulle rotte brevi: è la loro unica speranza di far soldi.
Sono passati i tempi in cui i viaggiatori inglesi scrutavano ansiosamente dal ponte l’avvicinarsi delle bianche scogliere di Dover, congratulandosi l’un l’altro per aver vinto la guerra e facendo commenti su quanto era bello essere tornati “alla vera cucina inglese”. Ma anche se Boulogne ora somiglia parecchio a Dover (per quanto Dover, malinconicamente, somigli ancora a se stessa), la traversata della Manica continua a dirci molte cose sulle due sponde.
Tentati dalle tariffe sottocosto per viaggi con andata e ritorno nella stessa giornata, gli inglesi si precipitano in Francia per comprare vagonate di vino a buon mercato, valigie di formaggio francese e stecche su stecche di sigarette con meno tasse. La maggior parte di loro viaggia in treno, trasportando se stessi o la loro macchina attraverso il tunnel. All’arrivo non affrontano più una schiera minacciosa di funzionari della dogana, ma un comitato di accoglienza di giganteschi hypermarchés che sovrastano le colline da Dunkerque a Dieppe.
Questi negozi selezionano le merci con un occhio al gusto britannico – le scritte sono in inglese – e fanno lauti profitti con i clienti d’oltremanica. Oggi nessuno è indotto a sentirsi anche solo vagamente colpevole perché chiede la massima quantità consentita di whisky a una commessa impassibile. Pochi di questi turisti britannici rimangono a lungo o si avventurano più a sud. Se avessero voluto farlo, probabilmente avrebbero preso la Ryanair spendendo la metà.
Gli inglesi sono ancora gli unici a recarsi all’estero con il deliberato proposito di forti consumi a basso costo? Non si vedono casalinghe olandesi che svuotano gli scaffali di Tesco ad Harwich. Newhaven non è certo un paradiso dello shopping e le signore di Dieppe non si servono qui. E ancora oggi i viaggiatori del continente che sbarcano a Dover non perdono tempo prima di dirigersi a Londra, il loro obiettivo prioritario. Ma gli europei che visitano la Gran Bretagna un tempo cercavano luoghi d’arte, monumenti storici e cultura. Oggi, anche loro accorrono a frotte per le svendite invernali negli onnipresenti grandi magazzini.
Questi pellegrinaggi commerciali sono tutto ciò che molti inglesi riusciranno mai a conoscere dell’Unione europea. Ma la vicinanza può essere ingannevole: a volte è meglio condividere con i tuoi vicini un reciproco senso di consapevole estraneità. Per questo abbiamo bisogno di un viaggio, una traversata nel tempo e nello spazio in cui registrare simboli e indizi di cambiamento e differenza: polizia di frontiera, lingue straniere, piatti sconosciuti. Perfino un indigesto english breakfast può suscitare ricordi della Francia, aspirando in modo implausibile allo status di mnemonica madeleine. Mi manca la Lord Warden.
Questo articolo è stato pubblicato il 27 agosto 2010 nel numero 861 di Internazionale.
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