Quando Veronica Yvette Bennett, conosciuta come Ronnie Spector (1943-2022), incide il mini album She talks to rainbows insieme all’amico Joey Ramone è il 1999. Ha 56 anni ed è considerata una sopravvissuta del rock’n’roll, in altre parole un rudere. Come Tina Turner (più vecchia di lei di pochi anni) anche Spector è stata una pioniera del rock, anche lei è stata sposata con un uomo violento, il produttore Phil Spector che la scoprì all’inizio degli anni sessanta, la segregò e la sottopose a indicibili violenze fisiche e psicologiche. A differenza di Tina Turner Ronnie Spector non ha mai avuto un grande rilancio commerciale negli anni ottanta, la sua storia non è diventata una rassicurante parabola motivazionale, un best seller del New York Times, un film di Hollywood e un musical di successo.

Gli amici che hanno cercato di tirarla su, di ridarle una parvenza di carriera quando era considerata un rottame non erano David Bowie e Mick Jagger, ma i punk newyorchesi Joey Ramone e Johnny Thunders. Forse Spector non aveva la stessa stoffa di Tina Turner, la stessa volontà, la stessa sete di rivalsa. In ogni caso si è ritrovata a incarnare e a vivere fino in fondo uno dei miti fondativi del rock: quello del loser, del perdente, dello spiantato a cui è andato tutto storto.

Le Ronettes, il girl group prodotto da Phil Spector, erano state uno dei più grandi successi statunitensi dei primi anni sessanta e hanno avuto una grande influenza, anche se abbastanza sotterranea, nello sviluppo del suono e della sensibilità punk rock. Ronnie è la prima “bad girl” del rock ’n’ roll: gonne cortissime, tanto mascara, un’appartenenza etnica poco riconoscibile (ha origini cherokee, afroamericane e irlandesi) e un perenne sguardo di sfida negli occhi. Ma è la sua voce a renderla unica: è la voce di una bambina che è stata costretta a diventare adulta in fretta, una voce fragile e dura allo stesso tempo, certo non vellutata come quella di Darlene Love, la cantante che il suo futuro marito aveva scelto per guidare il girl group The Crystals. La voce di Ronnie però era fatta per il wall of sound, il grande “muro del suono” che Phil Spector stava mettendo a punto in quegli anni. Come ha notato il giornalista Alexis Petridis, nel suo recente ricordo di Ronnie Spector sul Guardian, “c’è qualcosa d’immediatamente riconoscibile nella sua voce, una combinazione di ruvidezza delinquenziale e di tenerezza, un vibrato unico, una forza grezza mai addomesticata. Non importa quanto fossero densi o impervi gli arrangiamenti di Phil Spector, la voce di Ronnie Spector arrivava sempre”.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Sarà stato questo mix di “ruvidezza delinquenziale” e di tenerezza adolescenziale ad aver fatto di Ronnie Spector una sorta di santa patrona segreta dei punk newyorchesi. I primi a rifarsi apertamente alle Ronettes nei primi anni settanta, quando lei era praticamente sparita, erano stati i New York Dolls, la band protopunk che aveva contribuito a introdurre nel rock bianco elementi che oggi definiremmo “queer” ma che all’epoca erano visti solo come atteggiamenti da finocchi. I Dolls sono stati l’anello di congiunzione segreto tra i girl group degli anni sessanta e il punk e il post punk: quando il chitarrista Johnny Marr ha bussato alla porta di Morrissey, lo ha conquistato suonandogli una b-side delle favolose Marvelettes. Morrissey all’epoca era il presidente del fan club dei New York Dolls. Si può dire che gli Smiths, il più influente gruppo post punk in assoluto, siano nati grazie a un 45 giri di un girl group.

L’incontro, alla fine degli anni novanta, tra Joey Ramone, Daniel Rey (produttore dei Ramones) e Ronnie Spector è dunque tutto meno che casuale: tra loro c’è un legame artistico forte e la consapevolezza di una storia e di un’estetica condivisa. Se volete è la versione “perdente” dell’incontro tra Tina Turner e David Bowie. Ma al posto di Private dancer (il patinato album del rilancio di Tina e uno dei dischi più venduti degli anni ottanta), Ronnie si è trovata con un pugno di vecchie canzoni e un ep indie di scarsissimo successo.

She talks to rainbows, la canzone che dà il titolo al mini album, è una cover dei Ramones; l’originale era contenuto nel loro ultimo album ¡Adios Amigos! (1995). È una canzone in cui si descrive una ragazza “che sembra felice ma che è anche molto triste”, una tipa solitaria che parla con gli alberi, con le api, con gli uccelli e con l’arcobaleno. Parla con tutto tranne che con l’io narrante della canzone, un uomo che si strugge per lei e impazzisce a sua volta. Cantata dalla voce roca ma dal fraseggio immacolato di Ronnie Spector diventa una canzone autobiografica: è la storia di una ragazza traumatizzata che impara a chiudersi al mondo per sopravvivere. Non possono non tornare in mente le violenze che lei aveva subìto quando il marito la teneva segregata in casa e le mostrava una bara dorata con il coperchio di cristallo per dirle che lì sarebbe finita, con una pallottola in testa, se si fosse messa in testa di scappare.

Don’t worry baby è invece una canzone dei Beach Boys in cui Ronnie si riappropria di un frammento del suo passato. La canzone infatti era stata scritta per le Ronettes ma Phil Spector l’aveva rispedita ai mittenti. “Non l’aveva scritta lui”, spiegò anni dopo Ronnie, “avrebbe dovuto spartire lo royalties, quindi niente”.

La pietra angolare di questo ep è però You can’t put your arms around a memory scritta da Johnny Thunders dei New York Dolls. In un filmato live del 2018 Ronnie Spector racconta come aveva conosciuto Thunders. Dopo il divorzio doveva ricominciare la sua vita da zero; negli anni settanta non era più famosa, non era più nessuno e cantava in un club gay di New York. Una sera notò, in prima fila, un uomo che la ascoltava e piangeva per tutta la durata del suo set. Quell’uomo era lui: Johnny Thunders.

Sarà Joey Ramone a proporre a Ronnie Spector di cantare You can’t put your arms around a memory (“Un ricordo non lo puoi abbracciare”), e ancora una volta usava una canzone per proiettare qualcosa su di lei. Ronnie ricorda che mentre registravano l’ep Joey Ramone sapeva di essere malato di cancro, infatti sarebbe morto due anni dopo, nel 2001. “Joey attraverso quella canzone voleva dirmi qualcosa”, ha raccontato Ronnie Spector in un’intervista del 2011. “Voleva dirmi: ehi, non potrai più abbracciarmi perché presto non ci sarò più. Attraverso quella canzone mi parlava di sé, mi diceva: Ronnie non ci sarò più. Per questo insisteva che la cantassi”.

Producendole You can’t put your arms around a memory, Joey Ramone alla fine dei suoi giorni si specchia in Ronnie Spector, quel relitto degli anni sessanta ancora in piedi e ancora capace di amore e di dolcezza. Quando Ronnie canta “Sei solo un bastardo senza nome perché vivi con me, io e te siamo una cosa sola” chiude un cerchio tra punk rock e pop degli anni sessanta e mostra tutta quella fragilità adolescenziale, quella consapevolezza di essere dei perdenti che scorre, come un fiume carsico, lungo tutta la storia del rock’n’roll, giù fino ai Nirvana e ancora oltre.

Ronnie Spector
She talks to rainbows
Creation /Kill Rock Stars, 1999

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it