Le radici musicali dei grandi gruppi synth pop britannici degli anni ottanta sono molto variegate: gli Omd e i Depeche Mode s’ispiravano a Kraftwerk e kraut rock, gli Human League guardavano a David Bowie e ai Roxy Music, i Soft Cell al protopunk newyorchese dei Suicide e al glam rock anni settanta, gli Eurythmics erano uniti dal loro amore per l’etichetta Motown. I Pet Shop Boys, arrivati al successo un po’ più tardi, a metà anni ottanta, hanno ispirazioni ancora diverse: loro partono dalla disco, dalla hi-nrg newyorchese di Bobby Orlando e dall’italo-dance. E in più hanno un altro aspetto che li differenza dalla maggior parte dei colleghi: un genuino interesse per il teatro musicale in ogni sua forma – musical, cabaret, opera lirica e operetta.

Elementi di teatro musicale sono presenti in diverse loro canzoni fin dai primissimi tempi. Jealousy, uno dei primi pezzi che Chris Lowe e Neil Tennant scrissero insieme come Pet Shop Boys, è in tutto e per tutto uno showtune, un pezzo da musical: lunghe strofe con un crescendo drammatico che sfocia in una pomposa coda orchestrale ne fanno più un grande numero da fine atto che una canzone pop. Jealousy non era adatta ai loro primi album, tutti orientati sulla pop dance da classifica, quindi la tennero da parte per diversi anni. Al momento di inserirla nel loro quarto album, Behaviour, i Pet Shop Boys mandarono il pezzo a Ennio Morricone per farsi arrangiare la parte orchestrale. Lui scomparve per mesi e poi propose di lasciar perdere Jealousy e di scrivere insieme un altro pezzo. Spedì ai Pet Shop Boys un demo in italiano che, a detta di Tennant, “sembrava un pezzo di David Bowie del 1970” e loro lo trasformarono in un’ariosa e lunga ballata intitolata It couldn’t happen here, un altro ambizioso showtune che sarebbe diventato il pezzo principale di un loro costoso (e in verità non riuscito) progetto cinematografico.

Da Kurt Weill a Leonard Bernstein
I Pet Shop Boys hanno accarezzato per anni l’idea di scrivere musical per i teatri del West End. Nel corso della loro carriera hanno eseguito, alla loro maniera, pezzi di Bertolt Brecht e Kurt Weill (il cosiddetto secondo finale dell’Opera da tre soldi), del commediografo e compositore Noël Coward (Sail away) e del compositore Leonard Bernstein (Somewhere da West Side story). Quando hanno lavorato, nel 1988, al ritorno alla musica pop di Liza Minnelli hanno radicalmente reinventato per lei Losing my mind, un pezzo del grande autore di musical Stephen Sondheim. In più per i tour hanno sempre preferito rivolgersi a scenografi e costumisti provenienti dal teatro: per esempio per il Performance tour, nel 1991, hanno chiamato David Alden e David Fielding dalla Royal Opera house di Londra. Mi è capitato di vedere un loro allestimento del Serse di Händel che, in effetti, mi ha fatto chiedere se stessi vedendo un’opera barocca o un concerto dei Pet Shop Boys.

Nel maggio del 2001 il progetto di fare del teatro musicale si concretizza e all’Arts Theatre di Londra debutta Closer to heaven, il loro primo musical. Il libretto, scritto da Jonathan Harvey in collaborazione con Tennant e Lowe, è un concentrato di cultura pop fine anni novanta, tra megadiscoteche in cui la droga scorre allegramente (quella del momento era la ketamina), audizioni per boyband e piccoli drammi della gelosia pre-social network. Molte canzoni che furono scritte per il musical sono finite in forme diverse nell’album Nightlife: una tra tutte In denial, un duetto con Kylie Minogue in cui una ragazza incoraggia il padre a fare coming out.

Uno dei personaggi più memorabili di Closer to heaven è Billie Trix, un’attempata ex superstar della controcultura anni sessanta che fa la madrina e la vocalist nella discoteca in cui si svolge gran parte della storia. La parte era stata affidata all’attrice britannica Frances Barber (Prick up your ears e Sammy e Rosie vanno a letto), che grazie anche a un paio di canzoni memorabili rubò la scena al resto del cast. Friendly fire, in particolare, è una delle più belle canzoni scritte dai Pet Shop Boys e Barber, con la sua voce rauca e profonda, l’ha fatta sua con la ruvida tenerezza della miglior Marianne Faithfull. Neil Tennant ha più volte detto che la canzone gli arrivò in sogno. “Una notte”, racconta in un’intervista, “ho sognato David Bowie che mi cantava questo verso: ‘Sono sotto al fuoco amico / colpito per la causa fatale del rock n roll’”. Quell’embrione è diventato una canzone per Billie Trix, un manifesto della sua storia e della sua resistenza ai tempi che cambiano: “I critici hanno mentito su di me ma io li ho ignorati e sono sopravvissuta sotto al fuoco amico”.

Frances Barber, Friendly fire. Dal cabaret Musik scritto da Jonathan Harvey e i Pet Shop Boys

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Billie Trix è a tutti gli effetti sopravvissuta. Anzi, tra tutti i disgraziati personaggi di Closer to heaven è stata l’unica ad avere avuto una rinascita, o meglio un revival come si dice in teatro. Nel 2018 infatti Neil Tennant, Chris Lowe e il librettista Jonathan Harvey si rimettono al lavoro su uno spin off del vecchio musical interamente basato sulla storia (e i deliri) di Billie Trix. Musik, questo il titolo della commedia musicale, è un atto unico, un one woman show tra la stand up comedy e il cabaret in cui la protagonista parla di sé e della propria vita interrompendo il suo flusso di coscienza solo per cantare sei canzoni dei Pet Shop Boys amorevolmente scritte per lei.

Debutto al festival di Edimburgo
Musik ha debuttato il 5 agosto 2019 al Fringe festival di Edimburgo con un buon successo di critica ed è stato ripreso nel febbraio 2020 al Leicester square theatre di Londra per quattro settimane. Ho avuto la fortuna di vedere una di quelle recite londinesi ed è stata l’ultima cosa che ho visto in teatro prima che cominciasse il confinamento da covid-19.

La sala, a due passi da Leicester square, era piuttosto piccola, quasi un caveau con un bar in fondo alla sala. Tra pinte di birra e chiacchiere del pubblico Frances Barber, anzi Billie Trix, si è materializzata sul palco, quasi alla chetichella, e ha cominciato il suo monologo. Con una benda su un occhio e una sigaretta accesa in una mano, Billie è una donna che ne ha viste tante, un’icona ormai fanée degli anni della controcultura, una ex star del cinema underground, ex diva dell’euro-disco, ex musa di artisti, poeti e intellettuali. Qualunque cosa fosse successa nel mondo lei era lì. Ha conosciuto Dalí, ha suggerito a Andy Warhol di dipingere lattine di zuppa, il suo film underground The masturbation of race è stato un successo di scandalo e perfino Madonna ha imparato tutto da lei.

Non si capisce quanto ci possa essere di vero nel racconto di Billie Trix. È una povera mitomane? Una cocainomane che parla a ruota libera? Il relitto di uno star system alternativo che si è lasciato dietro solo una scia di fallimenti o di morti per droga? Lei sembra davvero un cascame di quell’Experimental jest set, trash & no star che dava il titolo a un indimenticabile album dei Sonic Youth: jet set sperimentale, solo spazzatura e niente star. Eppure Billie è anche una donna acuta e spiritosa: ha un punto di vista eccentrico su tutto e a volte ha perfino alcuni sprazzi di amara lucidità. Frances Barber ha giustamente avuto un grande successo personale: la sua Billie Trix riesce a essere un ibrido tra Marianne Faithfull, Amanda Lear e una qualunque superstar di Andy Warhol che ha avuto la fortuna di uscire viva dagli anni sessanta.

La forza delle canzoni
E poi ci sono le canzoni che Billie Trix canta sospendendo per un attimo il suo caotico flusso di coscienza. La prima s’intitola Mongrel (“bastardella”) ed è la storia della sua infanzia sfortunata: Billie era nata a Berlino nel 1945 da uno stupro. “I tempi erano duri”, canta Billie Trix, “ma io ero più dura”: la canzone, come spesso accade nel cabaret e nel musical, è in bilico tra melodramma lacrimoso e autentica brillantezza. I Pet Shop Boys inizialmente volevano chiamare lo spettacolo proprio Mongrel ma poi decisero che era troppo deprimente e anche un po’ irrispettoso.

Con Soup Billie Trix svela la sua natura di musa ispiratrice della pop art degli anni sessanta: la zuppa in scatola, non importa se è minestrone o vellutata, è una medicina per l’anima e se riesci a farne un’opera d’arte ancora meglio. “Quando ti manca un’idea” canta Billie rivolgendosi idealmente a Andy Warhol, “questa è la panacea. Dipingi una bella lattina di zuppa e lei non ti tradirà”.

Run, girl, run è un’altra incursione nell’iconografia degli anni della contestazione. Stavolta Billie si rivolge a Kim Phúc, la ragazzina vietnamita che fugge dai bombardamenti durante la guerra del Vietnam e resa immortale da una foto scattata nel 1972: fuggi ragazzina, le dice, scappa più lontano che puoi non solo dalle bombe ma anche dall’occidente che vuole divorarti l’anima e fare di te un’icona pop. “I fotografi scattano, le telecamere girano, il mondo occidentale vorrebbe dire che gli dispiace tanto”, canta Billie con aria ferocemente sconsolata: “Scappa, ragazzina, scappa. Un bel giorno, senza nessun avvertimento, diventerai qualcuno”. Il testo di Run girl run è un esempio di camp da manuale: pericolosamente in bilico tra sentimentalismo e presa in giro, tra riflessione seria sul potere delle immagini e sberleffo.

Ich bin Musik, “Io sono musica”, è l’immancabile momento disco: Billie Trix è sopravvissuta agli anni sessanta e agli anni settanta e ha il suo grande ritorno in quelli che immaginiamo essere i primi anni ottanta come disco diva. Chi non ha avuto una svolta disco nella vita? Da Amanda Lear a Milva l’eurodance ha dato una seconda possibilità a tante. E perché non anche a Billie Trix? I Pet Shop Boys confezionano per lei un pastiche irresistibile, tutto tastieroni e archi svolazzanti. La canzone parla del potere liberatorio della musica e il titolo in tedesco rimanda idealmente alla Monaco di Baviera del primo Giorgio Moroder e di tanta euro-disco. Le tastiere però sono assolutamente Pet Shop Boys e il testo è ancora una volta un trionfo di camp: “Sognerò una nuova scena pazzesca dove la musica suonerà e io sarò la regina”. Ancora una volta l’illusione di una vecchia diva mitomane di essere regina di qualcosa, ma ancora una volta non c’è farsa o presa in giro ma sempre una certa ironica e indefinibile tenerezza.

In scaletta non può mancare un revival di Friendly fire, il pezzo che Billie Trix cantava in Closer to heaven, quello dettato in sogno da David Bowie a Neil Tennant. All’interno del one woman show di Frances Barber la canzone è ancora più convincente: è l’unico momento in cui Billie Trix con tutti i suoi orpelli sembra sparire e viene messa a nudo l’interprete. A Frances Barber cantare le canzone dei Pet Shop Boys piace davvero molto.

Lo show si chiude con For every moment, che comincia con un parlato: “Chissà cosa mi riserverà ora la vita? Quale sarà il prossimo capitolo?”. Per Billie Trix la vita è un continuo susseguirsi di morti e rinascite, di fallimenti e di reinvenzioni: per lei la morte, quella vera, la fine di tutto, non sembra esistere. E nella canzone, che nel frattempo decolla e diventa un pezzo dance che invita tutto il pubblico in sala ad alzarsi, Billie spiega qual è il segreto della sua eternità: l’indipendenza. Può sembrare una pazza, una mitomane, una vecchia diva pateticamente alla ricerca di attenzione ma la vita è sempre stata la sua e da quando è venuta al mondo ha capito che le scelte, tutte, anche le più avventate, erano sempre e comunque scelte sue.

Le sei canzoni di Musik sono uscite solo in digitale in occasione delle recite del 2019 e sono un documento prezioso della sensibilità autoriale di Neil Tennant e Chris Lowe e soprattutto della bravura di Frances Barber, che riesce a dare a un personaggio grottesco e impossibile un’umanità coinvolgente.

Frances Barber
Musik
x2 Recordings, 2019

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