Tutto sommato, bisogna avere comprensione per le agenzie d’intelligence francesi. Ogni giorno affrontano il dilemma che nasce dal divario tra la quantità di personale disponibile e l’enorme numero di persone sospette. L’intelligence e la polizia francesi hanno appena cinquecento o seicento agenti sulle tracce di possibili criminali. Eppure nei loro registri ci sono circa undicimila persone classificate come potenziali minacce alla sicurezza nazionale.
Mettere in piedi un’operazione di controllo 24 ore su 24 di una persona richiede l’impiego di trenta-quaranta agenti. Quando si tratta di scegliere a chi dare la priorità, si trovano di fronte a una decisione difficile.
Spesso fanno la scelta giusta e sono molti i piani che riescono a sventare. Ma quando si sbagliano, come hanno fatto due volte quest’anno, prima negli attentati a Charlie Hebdo e poi nel massacro del 13 novembre, la pressione nei loro confronti aumenta. Era inevitabile che fosse aperta un’inchiesta sui loro errori. Ma il governo francese ha già proposto una nuova legislazione per introdurre misure di sicurezza più rigide.
L’intelligence francese conosceva già almeno tre degli attentatori
I funzionari che guidano l’intelligence statunitense sono ancora segnati dalla rinuncia alla raccolta di dati grezzi telefonici dovuta all’entrata in vigore il 2 giugno 2015 del Freedom act, e adesso stanno sfruttando i fatti di Parigi per sostenere le loro ragioni a proposito della necessità di aumentare la sorveglianza.
Il 18 novembre, il direttore dell’Fbi James Comey si è lamentato del fatto che internet sia ormai in buona parte inaccessibile. Secondo lui sia le agenzie d’intelligence sia le forze dell’ordine hanno bisogno di accedere in maniera migliore e più rapida ai dati sulle comunicazioni.
Sostanzialmente il ragionamento è che, avendo accesso a tutte le informazioni disponibili, è più semplice garantire la sicurezza di tutti. In casi come quelli di Parigi, le agenzie dicono di aver rapidamente bisogno di analizzare retrospettivamente le informazioni per capire con chi erano in contatto i sospetti, identificare le loro reti e prevenire altri potenziali attentati.
Il problema, in questi casi, come praticamente in qualsiasi incidente terroristico avvenuto dopo l’11 settembre, è che i servizi segreti francesi conoscevano già almeno tre degli attentatori.
Sorveglianza mirata
Abdelhamid Abaaoud era noto come il complice di due jihadisti uccisi in Belgio a gennaio. La polizia aveva un dossier su Omar Ismail Mostefai già da prima che si recasse in Siria nel 2013, mentre Sami Amimour era stato fermato nel 2012 perché sospettato di avere legami terroristici.
In altri termini, le agenzie d’intelligence francesi non hanno fallito perché possedevano pochi dati, ma perché non hanno agito in base a quanto avevano a disposizione.
I tre avrebbero potuto essere oggetto di una tradizionale sorveglianza mirata. Se la sorveglianza fisica è complicata poiché richiede un ampio uso di personale, tenere sotto controllo le loro comunicazioni è meno difficile.
Per sorvegliare dei sospetti non è necessaria la raccolta dei dati di comunicazione (intercettazioni telefoniche, posta elettronica, post su Facebook, comunicazioni in chat) di ogni singolo cittadino francese, ma solo quelle dei sospetti.
Simili informative arrivano regolarmente alle agenzie, che faticano a capire quali riflettano un effettivo pericolo
Uno dei principali argomenti avanzati da Comey e, all’inizio della settimana, dal direttore della Cia John Brennan, è che i terroristi sono diventati più abili nell’occultare le loro comunicazioni. Ma il cellulare ritrovato in un cestino, e che ha portato la polizia al covo di Saint-Denis, conteneva dei messaggi non criptati.
Perciò, alle agenzie di intelligence francesi non mancavano adeguati poteri di sorveglianza. Esiste, invece, una storica mancanza di cooperazione tra le agenzie d’intelligence europee che si somma alla loro riluttanza a condividere i dati per paura di fughe d’informazioni. E quando le agenzie collaborano, il processo è lento, anche su questioni semplici come le traduzioni.
Il governo iracheno aveva inviato degli avvertimenti su un possibile attentato all’intelligence francese, che li ha ignorati. Simili informative arrivano regolarmente alle agenzie, che faticano a capire quali riflettano un effettivo pericolo. Più grave è stato il rifiuto francese di agire dopo che il governo turco aveva segnalato le sue preoccupazioni riguardo a Mostefai. A ciò si aggiunge la mancanza di cooperazione tra la Francia e il Belgio, dove risiedevano alcuni attentatori.
Su simili errori dovrebbero riflettere le agenzie d’intelligence francesi e statunitensi, invece di sfruttare la tragedia per chiedere di aumentare i poteri di intercettare le comunicazioni tra le persone.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è stato pubblicato dal Guardian. Clicca qui per vedere l’originale.
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