Possiamo avere tutto: ce lo promette la nostra epoca. Possiamo avere qualsiasi gingillo che riusciamo a immaginare – e pure alcuni inimmaginabili. Possiamo vivere come re senza mettere in pericolo la Terra. Tutto questo è possibile, dicono, perché man mano che le economie si sviluppano, diventa più efficiente anche il loro modo di gestire le risorse. In poche parole, ci dicono, si sono sganciati il tasso di crescita economica e il tasso dell’uso delle risorse.
Questo sganciamento avviene in due modi: relativo e assoluto. Nel primo caso, per ogni punto economico in più, scende l’uso delle risorse; nel secondo si verifica una riduzione assoluta nell’uso delle risorse, anche se l’economia continua a crescere. Quasi tutti gli economisti ritengono che lo sganciamento, relativo o assoluto, sia una caratteristica della crescita economica.
Un’idea infondata
Su questa idea di sganciamento si basa il concetto di sviluppo sostenibile, che è al cuore dei negoziati sul clima in programma a Parigi dal 29 novembre – e di qualsiasi altro vertice sull’ambiente. Ma, a quanto pare, è un’idea infondata.
Uno studio pubblicato quest’anno su Proceedings of the National Academy of Sciences (Pnas) suggerisce che anche lo sganciamento relativo che dichiariamo di aver raggiunto, è il risultato di un calcolo fallace compiuto da governi ed economisti nel misurare il nostro impatto sull’ambiente.
Questo calcolo fallace funziona così: prende le materie prime estratte nei singoli paesi, le somma alle importazioni e poi sottrae le esportazioni, ottenendo un dato chiamato “consumo interno di materiali”. Tuttavia, misurando solo i prodotti trasferiti da un paese all’altro, invece che le materie prime necessarie a creare quei prodotti, sottovaluta l’uso totale di risorse da parte dei paesi ricchi.
Calcolando l’impronta dei materiali i presunti progressi nell’uso efficiente delle risorse scompaiono
Per esempio, quando un paese estrae e lavora dei materiali all’interno del suo territorio, queste materie prime sono incluse nel calcolo del consumo interno, insieme ai macchinari e alle infrastrutture usate per ottenere il metallo finito.
Ma quando si importa un prodotto metallico dall’estero, si calcola solo il peso del metallo. E quindi, man mano che l’estrazione mineraria e l’attività manifatturiera si spostano da paesi come il Regno Unito e gli Stati Uniti ad altri come la Cina e l’India, risulta che i paesi ricchi usano meno risorse. Un calcolo più razionale, chiamato impronta dei materiali, include tutte le materie prime usate da un’economia, a prescindere dalla loro provenienza. Quando si prendono in considerazione questi dati, i presunti progressi nell’uso efficiente delle risorse scompaiono.
Il riagganciamento tra crescita economica e uso delle risorse
Nel Regno Unito, per esempio, c’è una situazione totalmente diversa dallo sganciamento assoluto che sembra emergere dai calcoli sul “consumo interno di materiali”. Non solo non esiste quello assoluto, ma nemmeno quello relativo. Anzi, fino alla crisi finanziaria del 2007 il grafico mostrava risultati opposti: anche per quanto riguarda la crescita del prodotto interno lordo, l’economia britannica stava diventando meno efficiente nel suo uso dei materiali. Contro ogni previsione, si stava verificando un riagganciamento.
È diminuita l’emissione di anidride carbonica dei paesi ricchi ma è aumentata quella che emettono per procura
Nonostante l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) abbia sostenuto che i paesi più ricchi hanno dimezzato l’intensità con la quale usano le risorse, questa nuova analisi suggerisce che nell’Unione europea, negli Stati Uniti, in Giappone e negli altri paesi ricchi non c’è stato “alcun miglioramento nel grado di efficienza delle risorse”. Si tratta di una notizia sorprendente, perché sembra smentire tutto quanto ci è stato detto sull’andamento del nostro impatto ambientale.
Ho spedito l’articolo a uno dei principali pensatori britannici che si sono occupati dell’argomento, Chris Goodall, secondo il quale il Regno Unito aveva raggiunto il peak stuff, cioè che c’è stata una riduzione complessiva nel nostro uso delle risorse, conosciuto come lo sganciamento assoluto. Che cosa ne pensava? Con grande onestà, ha risposto che “in senso ampio, naturalmente, hanno ragione”, nonostante le nuove analisi sembrino indebolire le sue tesi. Aveva tuttavia qualche riserva, in particolare sul sistema per calcolare l’impatto dell’edilizia.
Mi sono consultato anche con il principale esperto accademico del paese sull’argomento, il professor John Barnett: lui e i suoi colleghi hanno condotto un’indagine simile, nel loro caso dedicata all’efficienza energetica e all’emissione di gas serra del Regno Unito. “Abbiamo riscontrato una dinamica simile”, mi ha detto Barnett. Uno dei suoi articoli rivela che, mentre le emissioni di diossido di carbonio del Regno Unito sono ufficialmente calate di 194 milioni di tonnellate tra il 1990 e il 2012, questa riduzione è vanificata dal biossido di carbonio che emettiamo per procura acquistando merci dall’estero, e che è cresciuto di 280 milioni di tonnellate nello stesso periodo.
Sembriamo incapaci di affrontare il fatto che la produzione sembra essere inscindibile dalla distruzione
Decine di altri articoli giungono a conclusioni simili. Per esempio, un rapporto pubblicato dalla rivista Global Environmental Change ha scoperto che, ogni volta che il reddito raddoppia, un paese ha bisogno di un terzo in più di terra e mare per sostenere la sua economia, a causa della crescita del suo consumo di prodotti animali. Un recente studio apparso sulla rivista Resources ha rilevato che il consumo globale di materie prime è cresciuto del 94 per cento negli ultimi trent’anni, accelerando il suo ritmo dal 2000 in poi. “Negli ultimi dieci anni, su scala globale, non c’è stato nemmeno un esempio di sganciamento relativo”.
Possiamo convincerci che stiamo vivendo liberi nell’aria, fluttuando in un’economia senza gravità, come degli ingenui futurologi hanno predetto negli anni novanta. Ma si tratta di un’illusione, creata da un modo irrazionale di calcolare il nostro impatto ambientale. E questa illusione permette un’apparente riconciliazione tra politiche incompatibili.
I governi ci spingono sia a consumare di più sia a usare meno risorse. Dobbiamo estrarre più combustibili fossili dal terreno, ma bruciarne di meno. Dobbiamo ridurre, riutilizzare e riciclare gli oggetti che entrano nelle nostre case, e al contempo aumentare il loro numero, buttandoli via e sostituendoli. Altrimenti come può crescere l’economia di consumo? Dovremmo mangiare meno carne per proteggere le forme di vita del pianeta, e mangiarne di più per sostenere l’industria alimentare. Simili politiche sono incompatibili. Le nuove analisi suggeriscono che il problema è proprio la crescita economica, indipendentemente dal fatto che si aggiunga l’aggettivo “sostenibile”.
La verità è che non solo non affrontiamo questa contraddizione, ma addirittura pochissimi osano anche solo parlarne. Come se il problema fosse troppo grande, troppo spaventoso per essere contemplato. Sembriamo incapaci di affrontare il fatto che la nostra utopia è anche la nostra distopia, che la produzione sembra essere inscindibile dalla distruzione.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è uscito su The Guardian. Per leggere l’originale clicca qui.
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