Il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, anche conosciuto con la sigla inglese Ipcc, è nato nel 1988 su iniziativa dell’Organizzazione meteorologica mondiale e del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente.

“La struttura dell’Ipcc è sempre stata sgangherata come il suo nome”, scrive Elizabeth Kolbert sul New Yorker, perché “ogni rapporto pubblicato dal gruppo doveva essere approvato non solo dai ricercatori, ma anche dai governi dei paesi membri, che oggi sono centonovantacinque. Il processo sembrava pensato per produrre una situazione di stallo e, a detta di molti, questo era il suo scopo”.

Fatto sta che da allora, seguendo la stessa complicata procedura, l’Ipcc ha periodicamente aggiornato i suoi rapporti. Fino al più recente, il sesto, presentato il 9 agosto. Anche nella sua versione più sintetica, il cosiddetto Riassunto per i responsabili politici, è del tutto impenetrabile, “con il suo mix di tecnicismi e ampollosità. Nonostante ciò”, dice ancora Kolbert, “riesce a essere terrorizzante”.

Oggi la gravità della crisi climatica è sotto gli occhi di tutti e non c’è bisogno di essere uno scienziato per rendersene conto. Eppure nel 2020 le venticinque più grandi aziende statunitensi del gas e del petrolio hanno pubblicato su Facebook una serie di annunci, visti da 431 milioni di persone, per minimizzare l’emergenza climatica fornendo informazioni incomplete o scientificamente scorrette. L’obiettivo è chiaro: rallentare gli interventi per contrastare la crisi climatica e preservare il più a lungo possibile l’attuale modello economico e produttivo.

Malgrado le resistenze e gli ostacoli bisogna però sforzarsi di essere ottimisti. Lo spiega bene Rebecca Solnit nell’articolo che pubblichiamo questa settimana: “La cosa che più colpisce nel rapporto dell’Ipcc non sono le cattive notizie, che in realtà non sono affatto una novità. È la chiarezza sulle possibili soluzioni, che sono un segnale di speranza”.

Questo articolo è uscito sul numero 1423 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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