È un triste anniversario per le rivoluzioni arabe. A causa del covid ma anche del malcontento, il 14 gennaio la Tunisia ha commemorato a malapena il decennale dell’uscita di scena del dittatore Ben Ali. Il 25 gennaio tocca all’Egitto non celebrare la ricorrenza: esattamente dieci anni fa, ispirati dagli eventi tunisini, alcuni attivisti organizzarono su Facebook una manifestazione in piazza Tahrir, al Cairo. Meno di tre settimane dopo, il presidente Hosni Mubarak lasciava il potere.

In questi due paesi, avanguardie di quella che più nessuno chiama “primavera araba”, la rivoluzione è fallita. In Tunisia – ormai da molte settimane nelle città sinistrate dell’interno e dalla settimana scorsa nella capitale – i giovani manifestanti si scontrano con le forze dell’ordine. Questa esplosione di violenza è una conseguenza dell’esasperazione per le promesse di cambiamento disattese.

In Egitto lo scenario è quello della controrivoluzione, incarnata dal maresciallo Abdel Fattah al Sisi, che ha instaurato un regime ancora più repressivo di quello di Mubarak. L’esercito di Al Sisi era entrato in scena contro i Fratelli musulmani, per poi estendere la sua morsa autoritaria a tutta la società civile al minimo accenno di contestazione. Siamo agli antipodi degli ideali del 2011, insomma.

Le rivoluzioni arabe sono nate dal rifiuto di regimi decennali, di poteri militari o di polizia, della corruzione, del nepotismo e della stagnazione politica, economica e culturale. Un’intera generazione ha preso coscienza di quest’impasse e si è ribellata chiedendo un cambiamento.

Nel mondo arabo l’unico tema importante sembra la rivalità tra le potenze regionali

Ma le rivolte, largamente spontanee e disorganizzate, non hanno portato le riforme democratiche a cui aspiravano i giovani delle città, usciti dall’ombra anche grazie a quei social network che sembravano alleati della libertà.

Anni di lotte politiche, confusione e pulsioni contraddittorie non hanno portato tanto a un “inverno islamista” dopo la primavera del popolo, come vuole un cliché duro a morire, quanto piuttosto a un ritorno in forze del dispotismo, o nel caso singolare della Tunisia di una democrazia abbozzata che si avvicina al populismo.

È questa la “fine della storia”? No di certo, anche se va detto che la seconda ondata di movimenti popolari, in Algeria o in Libano, non ha avuto più successo della prima. I regimi attuali, nella maggioranza dei paesi arabi, si comportano come se dieci anni fa non fosse accaduto niente, e continuano a non tenere conto delle aspirazioni dei giovani.

Oggi esiste chiaramente un’impasse politica nel mondo arabo, dove l’unico tema importante sembra la rivalità tra le potenze regionali (comprese quelle non arabe, come la Turchia e l’Iran) e i loro alleati.

Come sottolinea un saggio pubblicato sul quotidiano di Beirut L’Orient-Le-Jour , i governi della regione non hanno “niente di nuovo da proporre in un mondo arabo che da decenni è privo di grandi idee”. È in questo paesaggio desolato che sono nate le rivoluzioni del 2011 e che si preparano le inevitabili e imprevedibili convulsioni di domani.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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