Sul ring della diplomazia mondiale la battaglia appare decisamente impari. Da un lato troviamo la Lituania, sulla costa baltica, con la sua popolazione che non raggiunge i tre milioni di abitanti; dall’altro la Cina e il suo miliardo e mezzo di abitanti. Eppure, leggendo i mezzi d’informazione ufficiali cinesi, la Lituania è diventata un paese da schiacciare.
“Il barboncino degli Stati Uniti”, “un piccolo paese che si mette in pericolo”, “la Lituania dev’essere punita”: sono solo alcuni dei commenti che riempiono gli editoriali cinesi, accompagnati da un boicottaggio economico e da un ridimensionamento dei rapporti diplomatici: al momento non c’è più un ambasciatore cinese a Vilnius né uno lituano a Pechino.
Questa collera nasce prima di tutto dalla decisione della Lituania di aprire, qualche giorno fa a Vilnius, un ufficio di rappresentanza di Taiwan. Nello specifico è l’uso della parola Taiwan a irritare i cinesi. La sede di Parigi, per esempio, si chiama Ufficio di rappresentanza di Taipei, ovvero una città e non un’entità che si potrebbe scambiare per un paese indipendente.
In prima fila
Può sembrare una questione da poco, ma è su questo genere di simboli che Pechino combatte per isolare Taiwan, con la speranza di rendere possibile una riunificazione con la “madre patria” cinese.
Le pressioni del regime cinese, però, non hanno avuto effetto. Anziché piegarsi, la Lituania ha rafforzato la sua posizione di paese paladino della democrazia, con tutti i rischi che ciò comporta.
La determinazione della Lituania risiede anche nella sua storia
Oggi la piccola Lituania si ritrova in prima fila su diversi fronti: davanti a Pechino, ma anche davanti alla dittatura della vicina Bielorussia. È a Vilnius, infatti, che si sono rifugiati gli oppositori bielorussi, a cominciare da Svetlana Tikhanovskaya, candidata contro Aleksandr Lukašenko alle elezioni presidenziali del 2020. Per “punire” la Lituania, l’estate scorsa il dittatore bielorusso ha usato l’arma dei migranti, in un’anticipazione dell’attuale offensiva contro la Polonia.
Di passaggio a Parigi, la presidente del parlamento lituano Viktorija Čmilytė-Nielsen ha riaffermato la posizione inflessibile del suo paese: “Lukašenko non è presidente, noi non discutiamo con lui”. Il ricatto di Minsk, insomma, non ha funzionato.
Conoscere la dittatura
Da dove nasce questa determinazione lituana? Parte della risposta si trova nella storia di questo paese. Čmilytė-Nielsen, grande maestra di scacchi votata alla politica, si trova a Parigi per celebrare il 24 novembre, in compagnia dei suoi omologhi di Estonia e Lettonia, il centenario del riconoscimento dell’indipendenza degli stati baltici da parte della Francia.
Naturalmente questa indipendenza ha vissuto una lunga parentesi, tra il 1939 e il 1991, quando gli stati baltici sono stati occupati dai sovietici. Questi popoli, dunque, conoscono bene la dittatura.
Ma è anche una questione di posizionamento internazionale: la Lituania fa parte dell’Unione europea e della Nato, e considerando i suoi minacciosi vicini ritiene di aver bisogno di un’assicurazione sulla vita. La fermezza di Vilnius nei confronti della Cina (la Lituania è stata il primo paese ad abbandonare il forum cinese 17+1 creato da Pechino in Europa) è ben vista a Washington. Il governo lituano, inoltre, invierà alcuni soldati al fianco dell’esercito francese in Sahel, un gesto molto apprezzato da Parigi.
La “piccola Lituania”, come la definiscono i mezzi d’informazione di Pechino, sta giocando la partita dei grandi. E la megapotenza cinese non le fa paura.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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