Gli accordi per il cessate il fuoco si susseguono e si somigliano tutti, dunque non fanno altro che sancire brevi pause tra i combattimenti. Al momento niente sembra poter arrestare le due forze che hanno trasformato Khartoum e una parte del Sudan in un campo di battaglia. I due generali che si scontrano sul campo, il capo dell’esercito Abdel Fattah al Burhan e il capo dei paramilitari Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemetti, sono animati da un odio sanguinario e giurano che non negozieranno mai.
I cittadini stranieri sono stati messi in salvo, mentre la popolazione civile si nasconde e quando può fugge nei paesi vicini. Le Nazioni Unite sottolineano il rischio di un disastro umanitario colossale. Secondo il responsabile dell’Onu per gli affari umanitari il Sudan si avvicina al “punto di rottura”.
Ma forse per il paese è solo l’inizio di una tragedia ancora più grande. Le notizie che arrivano dal Darfur, la regione più occidentale del Sudan, al confine con il Ciad, sono infatti preoccupanti. La ripresa degli scontri tra gruppi armati evoca lo spettro dei massacri degli anni duemila.
A partire dal 2003, sotto il regime dittatoriale di Omar al Bashir (poi rovesciato nel 2019), in Darfur è esploso un conflitto a carattere genocida, con una rivolta delle minoranze etniche non arabe brutalmente repressa da milizie composte da nomadi arabi inviati dal regime. Secondo le stime, il bilancio potrebbe aver superato i 300mila morti. All’origine del conflitto c’erano la suddivisione delle terre, l’accesso all’acqua e i furti di bestiame.
Nel 2013 le milizie chiamate janjaweed (i demoni a cavallo) hanno creato le Forze di supporto rapido, comandate da Hemetti, uno dei due protagonisti degli scontri attuali. Hemetti è originario del Darfur. Ma all’epoca anche l’esercito regolare aveva partecipato alla repressione. Tutti i capi militari che operano oggi hanno le mani sporche del sangue del Darfur.
Un equilibrio fragile
Nel 2020, nell’ambito della transizione successiva alla caduta del dittatore, i diversi movimenti armati hanno firmato degli accordi. Ora quell’intesa sta crollando, e già si segnalano decine di vittime nel capoluogo Geneina, nella zona ovest del Darfur.
La guerra tra i generali rischia dunque di risvegliare il conflitto in Darfur. Al momento il paese è in preda a uno scontro tra due clan militari, ma in Darfur e altrove in Sudan le fratture etniche, economiche e sociali stanno emergendo nuovamente e rischiano di provocare una guerra civile.
Il fragile equilibrio trovato con gli accordi del 2020 tra le tribù arabe e non arabe del Darfur ormai non regge più. I paesi vicini, intanto, hanno ognuno i propri interessi da difendere: il Ciad, la Repubblica Centrafricana e perfino la Libia, o meglio, il generale dissidente Khalifa Haftar.
I rapporti complessi tra le popolazioni e tra gli stati in un ambiente economico e sociale precario non possono resistere all’esplosione della violenza a Khartoum.
La minaccia di una tragedia umanitaria dovrebbe suscitare una mobilitazione diplomatica maggiore da parte di chiunque abbia il minimo impatto sulla crisi: gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita, l’Egitto o il Ciad.
Dopo aver salvato gli stranieri vogliamo davvero lasciare 45 milioni di sudanesi alla mercé di due generali assetati di potere?
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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