Cento giorni di un conflitto che non smette di peggiorare e in cui non si intravede ancora una via d’uscita. Cento giorni esatti dal massacro del 7 ottobre compiuto da Hamas, seguito dalle operazioni massicce dell’esercito israeliano nella Striscia di Gaza e da un’escalation regionale lenta ma inesorabile.

Per marcare questa ricorrenza simbolica, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha scelto un tono di sfida. “Nessuno potrà fermarci”, ha dichiarato. “Né l’Aja (un riferimento alla corte internazionale di giustizia) né l’asse della resistenza”, cioè l’Iran e i suoi alleati regionali. Netanyahu avrebbe potuto aggiungere “e neanche gli Stati Uniti”, perché con il suo atteggiamento da uno contro tutti il primo ministro israeliano resiste anche alle pressioni del presidente americano Joe Biden.

Nonostante le ripetute richieste degli statunitensi, infatti, la guerra va avanti con la stessa intensità nella Striscia di Gaza, provocando un disastro umanitario che coinvolge due milioni di palestinesi. Le vittime sono già 23mila, tra cui migliaia di bambini. L’85 per cento della popolazione ha dovuto abbandonare la propria casa. In una fase in cui molti soffrono la fame, gli aiuti umanitari sono clamorosamente insufficienti. “È una macchia per l’umanità”, ha dichiarato Philippe Lazzarini, responsabile svizzero dell’Unwra, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi.

Israele ha raggiunto i suoi obiettivi? Tutto dipende da come sono definiti questi obiettivi. L’esercito israeliano ha distrutto le infrastrutture di Hamas nel nord della Striscia di Gaza, ma incontra diverse difficoltà nel sud.

Intanto i leader di Hamas continuano a sfuggire ai militari israeliani, a cominciare da Yahya Sinouar, accusato di essere l’ideatore dell’attacco del 7 ottobre. Un importante leader del movimento islamista è stato ucciso a Beirut in un’operazione mirata, ma tutto ciò che Hamas perde militarmente lo guadagna politicamente tra la popolazione palestinese, soprattutto in Cisgiordania.

Israele promette altri mesi di guerra, ma ne avrà il tempo? Gli statunitensi chiedono da settimane un cambio di strategia per risparmiare i civili, ma hanno scoperto quanto sia debole la loro influenza su una coalizione di governo sbilanciata a destra. Fino a quando la situazione resterà la stessa?

Il proseguimento della guerra a Gaza rende inarrestabile l’escalation in corso, malgrado gli sforzi degli statunitensi per contenerla. Sul fronte settentrionale contro Hezbollah e soprattutto nel mar Rosso contro i ribelli sciiti huthi dello Yemen, ogni giorno c’è un allargamento del conflitto.

È possibile evitare uno scontro generalizzato? Questo è ancora l’obiettivo di Washington, anche se i bombardamenti nello Yemen in corso da tre giorni non favoriscono certo la distensione. È importante notare che la Francia, diversamente dal Regno Unito, non ha partecipato alle operazioni, preferendo adottare una posizione “difensiva”.

Le azioni degli huthi nel mar Rosso hanno modificato il traffico marittimo, costringendo duemila navi cargo a passare dal capo di Buona Speranza. Ma questo significa che, entrando formalmente in guerra, gli statunitensi rafforzano ulteriormente la loro immagine di sostenitori di Israele. Anche se esprimono perplessità sulle vittime a Gaza, sono intrappolati in contraddizioni evidenti che irritano l’Iran e i suoi alleati.

Come uscirne? La priorità dovrebbe essere la fine della guerra a Gaza, per liberare gli ostaggi e salvare i civili palestinesi vittime di una punizione collettiva. Ma il mondo è troppo debole per imporre una soluzione del genere e troppo diviso per chiederla collettivamente. Arrivati al centunesimo giorno di guerra, all’orizzonte non si intravede nessuna soluzione.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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