Nella sua storia Israele ha condotto due diversi tipi di guerra contro i suoi vicini: da una parte i conflitti contro i paesi arabi – Egitto, Siria, Giordania – e dall’altra quelli, più asimmetrici, contro forze non-statali come Hezbollah in Libano o Hamas a Gaza. I primi si sono conclusi in modo classico, come si usa tra stati, anche se nemici. Per quanto riguarda i secondi, invece, lo sviluppo è stato più complesso e spesso influenzato da un evento imprevisto.
Nel 1996 e nel 2006, nella guerra con Hezbollah, sono stati i sanguinosi attacchi israeliani contro i civili nel sud del Libano a provocare, in modo più o meno diretto, la fine delle ostilità. Nel 2006 il quotidiano cattolico francese “La Croix” aveva scritto che “la nuova guerra in Libano sta dimostrando che qualsiasi politica, seppur legittima, viene compromessa dall’uso di mezzi ingiusti”.
La stessa analisi è valida oggi per la guerra in corso a Gaza, soprattutto dopo il massacro del 29 febbraio, quando le forze israeliane hanno ucciso più di cento civili palestinesi affamati. Il diritto alla legittima difesa sostenuto da Israele dopo il 7 ottobre non può in alcun modo giustificare il numero di vittime civili degli ultimi cinque mesi, né tantomeno la decisione di affamare due milioni di persone con una punizione collettiva condannata dal mondo intero.
La maggior parte degli israeliani non vuole riconoscere questa tragedia, a causa del rancore ancora vivo dopo il 7 ottobre e della vicenda degli ostaggi che sono nelle mani di Hamas. Il primo ministro Benjamin Netanyahu continua a promettere una “vittoria totale”, senza però definirla in modo chiaro.
Nel frattempo si continua a negoziare un cessate il fuoco di sei settimane che permetterebbe uno scambio di ostaggi e prigionieri e il passaggio degli aiuti umanitari, possibilmente prima dell’inizio del ramadan, intorno al 10 marzo, dunque tra meno di una settimana.
Diversi fattori spingono verso una conclusione della guerra, a cominciare dalla tragica situazione umanitaria dei due milioni di abitanti di Gaza, che nessun alleato di Israele vuole accettare, soprattutto dopo la carneficina del 29 febbraio. Ma ci sono altre ragioni.
Il contesto polito è un altro elemento che lascia auspicare la fine del conflitto. Negli Stati Uniti il presidente Joe Biden sta pagando sul piano elettorale il sostegno senza esitazioni garantito a Israele e ha tutto l’interesse a mostrarsi impegnato per la pace e per una soluzione che tenga conto delle necessità dei palestinesi. L’incapacità di Washington di influire sullo sviluppo della guerra è ormai imbarazzante, soprattutto quando gli americani sono costretti a paracadutare gli aiuti umanitari perché Israele blocca i camion alla frontiera.
Il clima politico si sta degradando anche in Israele. Netanyahu è furioso perché Benny Gantz, membro del gabinetto di guerra, è stato ricevuto ufficialmente a Washington senza il suo consenso, mentre il ministro della difesa Yoav Gallant si oppone al resto del governo sul tema dell’esenzione dal servizio militare dei religiosi. I capi degli apparati di sicurezza israeliani, intanto, non si fidano più del ministro della sicurezza nazionale, il leader di estrema destra Ben Gvir.
È importante saper fermare una guerra, e quella in corso è durata fin troppo, al punto tale che nessuno riesce a capire cosa ci guadagni Israele ad andare avanti. A questo punto possiamo solo sperare in un cessate il fuoco rapido e in un ritorno della politica, che si imponga sul frastuono delle armi.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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